Avvenire, 30 gennaio 2019
E Kafka, cento anni fa, scrisse: «Caro papà...»
I grandi scrittori li fanno le madri. Li mettono al mondo, poi li fanno poco a poco scrittori, poeti. Per avere un poeta grandissimo è necessaria la più dolce e materna delle madri o la più canaglia di tutte. Il vero autore dell’opera – senza dover scomodare Freud e oltre il riferimento ai nomi soliti – è lei. Oppure in copertina, sopra il titolo, dovremmo scrivere: Famiglia Proust, Famiglia Leopardi? I libri di Franz Kafka invece si può dire che li ha scritti il padre.
I personaggi di Kafka si muovono per non procedere. Sanno che la meta è irraggiungibile, anche la più vicina, e non fanno che tornare sui propri passi. Sognano lunghi viaggi e nel sogno c’è il doppio compiacimento del potersi muovere finalmente, liberare, e del poter non farlo, per fortuna, nemmeno questa volta. Davanti a tante sue pagine si presente la sensazione di quei sogni in cui qualcosa o qualcuno – o una forza interna, invisibile – ci impedisce di avanzare.
Kafka prega in una lettera del ’22 l’amico Max Brod di eliminare tutti i suoi scritti, che lui invece conservò fino all’ultimo foglietto: tra gli Aforismi di Zurau, Kafka ne aveva cancellati 23 con una barra orizzontale, ciò non li rendeva illeggibili e sono stati pubblicati anche quelli. Voleva che fossero distrutti forse perché sono un groppo. Il groppo di un uomo per cui la scrittura è la conseguenza di un male, o del male. La scrittura che nasce dal male te lo ricorda continuamente, ma quando stai per morire anche il male non importa più e i groppi di sciolgono. Forse la Lettera al padre autorizza questi pensieri, e alla sua ombra l’enigma della scrittura kafkiana non è più un enigma. Se la scrittura è ciò che separa dal mondo, diventa l’unica vera vita. Se la solitudine è l’unica realtà occorre viverci con la maggiore pienezza. Allontanandosi sempre di più dalla vita. Nessun autore è imprendibile come Kafka nel labirinto delle sue opere – nel labirinto di ognuna presa singolarmente – e nessuno come lui sta interamente nel più breve apologo. Si direbbe che indagare una sola sua pagina valga come esaurire la lettura dell’opera intera. Con risultati simili, piuttosto esigui.
Quando Franz Kafka conosce Julie Wohryzek, all’inizio del 1919, non è molto distante la rottura del secondo fidanzamento con Felice Bauer. Con Felice, che conobbe nel 1912, si fidanzò due volte e due volte si lasciarono; l’ultima nell’estate del 1917. Con Julie le nozze erano fissate per la fine del ’19. All’ultimo momento, però, l’appartamento che era stato promesso a loro fu dato a un’altra coppia. Non avendo più una casa le nozze si rimandarono a una data che non arrivò mai. A Schelesen, dove aveva conosciuto Julie, Franz scrive la Lettera al padre, come l’uccellino paralizzato scrive al serpente che lo sta fissando. Il padre non la lesse mai. La lesse la sorella prediletta Ottla, e forse la madre, responsabile quanto il figlio, probabilmente, del mancato arrivo al destinatario.
Fino ai primi degli anni Ottanta la lettera per noi non aveva un finale, si interrompeva su queste parole, di una replica che Franz mette in bocca al’invisibile interlocutore: «Non sei idoneo alla vita, tu; ma per poterti…». Il manoscritto ritrovato a sessant’anni di distanza, e pubblicato nel 1986, recava il testo integrale (nei Tascabili Einaudi si legge ancora la migliore edizione, del 2014, con la traduzione di Ettore Ganni, un saggio di Klaus Wagenbach, brani dai diari e dalle lettere come sorta di auto-commento del testo). Che inizia così: «Carissimo papà, recentemente mi hai chiesto perché sostengo di aver paura di te. Come al solito non ho saputo rispondere, in parte appunto per la paura che mi incuti…» Insieme a “colpa” e a “potere”, la parola più presente nella Letteraè “paura”. Tutte e tre le parole sono illustrate con commenti, esempi, ricordi.
Nei fogli lasciati da Kafka c’è questo breve apologo: «Tutti sono molto gentili con A., press’a poco come si sta attenti che un magnifico biliardo non venga usato neppure da buoni giocatori, finché arriva il grande giocatore, esamina meticolosamente il piano, non tollera difetti prima di cominciare, ma poi, quando comincia a giocare lui, si scatena ignorando ogni riguardo». Il padre di Franz poteva ben essere quel grande, arrogante giocatore. Tale strapotere suscitava nel figlio paura e senso di colpa: «Queste delusioni del bambino non erano le consuete delusioni inflitte dalla vita – gli scrive – ma colpivano in profondità poiché provenivano da te che eri il metro di ogni cosa». Ne minarono irrimediabilmente la fiducia in se stesso: «Ma poiché non ero mai sicuro di niente, a ogni istante chiedevo una nuova conferma della mia esistenza (…) mi divenne incerto anche ciò che mi era più vicino, il mio corpo».
Quasi annullato nella volontà e fino nell’identità, sente che dovrà custodire in ogni modo la sua unità spirituale. Retrocede sempre più a difesa del più intimo di sé, abbandonando il resto: gli altri, il mondo, e quel che resta di sé. Da qui l’irrinunciabile, perfetta «indifferenza» che nella lettera descrive nel dettaglio: «La mia indifferenza fredda, a mala pena dissimulata, indistruttibile, infantilmente inerme (…) animalescamente compiaciuta…».
Il fallimento del matrimonio si deve principalmente a tre cause. La sicurezza della stanza in cui ha dovuto rinchiudersi – la scrittura –, il matrimonio poteva metterla a rischio. E gli bastava che il pericolo fosse solo possibile, dice, per rinunciare a tutto. Secondo aspetto: il matrimonio apparteneva al padre, come ogni cosa. Anche in qualità di fuga dal padre, era cosa sua. Così, andare equivaleva a restare. Terzo aspetto: poter avere una vita indipendente, immune da quel potere, colpa e paura, era inconcepibile, era “troppo”. Una meta inarrivabile.
E siamo di nuovo – nella vita, qui, non nella scrittura – all’impossibilità del movimento e all’inesistenza della via. Come in quest’aforisma, tra quelli di Zurau: «Capire quale fortuna sia che il terreno su cui sta non possa essere più grande dei due piedi che lo coprono».
Resta la grandezza di aver potuto, nel ricetto in cui si era recluso, schiacciato da quel potere, dalla paura e dalla colpa, ordire una delle opere più potenti del secolo in cui è vissuto.