Avvenire, 30 gennaio 2019
Per rientrare dall’Afghanistan ci vorrebbero mesi di operazioni
Era un ritiro annunciato da tempo. Il ministro Trenta ne aveva fatto un cavallo di battaglia del suo mandato. Ora ci siamo. Riporterà a casa i soldati dall’Afghanistan, 17 anni dopo l’inizio di una missione fatta di tante ombre e poche luci. Tutto era cominciato con l’operazione Enduring Freedom, varata dalla Casa Bianca dopo gli attentati alle Torri Gemelle. Al quartier generale del Comando Centrale, alla base di McDill, erano rappresentati ben settanta Paesi che aderirono alla coalizione.
Ventisette offrirono contributi militari: truppe, navi e velivoli. L’Italia era tra questi, almeno a parole. Era rappresentata a Tampa da uno staff interforze, composto da una dozzina di ufficiali e sottufficiali. Brillammo per ambiguità governative, mai dissipate. In Parlamento, fu illustrato un dispositivo di forze imponente e invece l’unico contributo reale fu apportato dal gruppo navale, fortemente limitato nel ruolo operativo dalle condizioni imposte dal nostro esecutivo alla Coalizione per l’impiego delle forze italiane. Andò meglio con Isaf, la missione della Nato che prese le redini dell’Afghanistan nel 2002, con un mandato di “nation building”. Fino alla metà del 2012, avevamo in teatro 4mila militari, dislocati in otto avamposti principali. Combattemmo senza dirlo. Oggi facciamo solo addestramento e consulenza.
Il nostro contingente si è ridotto di oltre tre quarti, con 800 militari, 148 mezzi terrestri e 8 velivoli, concentrati per lo più a Camp Arena, la nostra base presso Herat. Abbiamo il comando occidentale dell’operazione Resolute Support. In pratica guidiamo un contingente multinazionale che si occupa dell’addestramento, dell’assistenza e della consulenza alle forze di sicurezza locali. La maggior parte dei nostri uomini appartiene all’Esercito, alla Brigata aeromobile Friuli, ma ci sono anche avieri, marinai e carabinieri. A capo della missione interforze c’è il generale Salvatore Annigliato, cui spetta un compito ingrato. Il Generale ha già iniziato a ridurre gli organici di 200 unità circa, come previsto da Roberta Pinotti all’epoca del governo Gentiloni. In poche parole l’Afghanistan non è più una priorità per nessuno, a partire dagli americani. I team di ricostruzione provinciale non esistono più da tempo e il Paese langue. Lo lasciamo fragilissimo, senza vittoria militare e alte probabilità di guerra civile. Per i nostri partire ordinatamente sarà una fatica di Sisifo. Logisticamente, la missione in Afghanistan è la più impegnativa: il teatro dista 11 ore di volo dall’Italia. Ci vorranno mesi di andirivieni per ripiegare: ci sono migliaia di metri lineari di veicoli e container che dovranno tornare in Italia. Mettendoli in fila si coprirebbero le superfici di 40 campi da calcio. Useremo i cargo aerei, integrati da navi che salpano dal porto di Dubai. Ma bisognerà coordinarsi con le autorità afghane per bilanciare la nostra tempistica di rientro con la loro capacità di assumere la leadership nella gestione di Camp Arena e dell’Aeroporto di Herat. Forse è solo un arrivederci.