Corriere della Sera, 30 gennaio 2019
La Zona, il momento magico che ogni atleta sogna
«Mi è successo oggi e pochissime altre volte in carriera: ritrovarmi in quella Zona dove tutto si svolge senza sforzo, in automatico, con una forza che ti sorregge, t’invade, ti guida. È un sogno: ti senti divino, giochi su un’altra dimensione». Così parlò venerdì scorso Novak Djokovic dopo aver schiacciato il francese Pouille nella semifinale degli Open d’Australia che due giorni dopo vincerà travolgendo in finale Nadal. Riecco la Zona, alias il Flusso, lo stato di perfezione onnipotente che investe rare volte gli atleti (ma anche gli sportivi della domenica), postulato 40 anni fa da uno psicologo ungherese dal nome impronunciabile (Mihály Csíkszentmihályi) e oggetto di mille studi scientifici che vorrebbero capirne i segreti e, soprattutto, riprodurla in maniera controllata. Obiettivo arduo perché raggiungere la Zona è, appunto, evento raro (da tre a dieci volte in carriera) e imprevedibile.
In Zona domini tempo e spazio e ti vedi dall’esterno come in un videogioco gestendo i tuoi movimenti con la precisione di un grande chirurgo. Secondo Sam Vine, ricercatore della Exter University, uno dei segreti dell’ingresso in Zona è l’attivazione del «quiet eye», l’occhio rilassato, una visione che esclude ogni fattore di disturbo esterno e induce concentrazione assoluta sui propri movimenti e su quelli dell’avversario. Vine, psicologo, sostiene di riconoscere il Flusso guardando (negli occhi) un a-tleta giocare. La Zona non corrisponde sempre al momento di massima forma fisica o di sicurezza per i risultati acquisiti, ma può nascere anche dalla consapevolezza di aver poco da perdere. Sofia Goggia è tornata in gara lo scorso week end dopo il lungo stop per la frattura del malleolo: due secondi posti in due giorni in superG e discesa. «Quando si è aperto il cancelletto – ha spiegato la bergamasca – mi sono scatenata come una belva, ma in una calma assoluta. Sapevo esattamente cosa dovevo fare».
Per capire la Zona (e sfruttarla) bisognerebbe individuare le ragioni per cui si attiva e quindi «fotografarla» mentre si manifesta: impresa complessa. Stephen Kohen, ricercatore alla Liverpool Hope University, ha ottenuto il permesso di somministrare test psicologici ai tennisti durante un match, tra un game e un altro. L’idea è di combinare dati strumentali (come pulsazioni e frequenza respiratoria) a sensazioni soggettive come percezione di comfort, ansia e capacità di prestazione abbinando il tutto ai risultati agonistici conseguiti. La revisione dei dati aiuta gli atleti (almeno chi non si spaventa davanti a grafici complessi e psicologi) ad analizzarsi in profondità, realizzando ad esempio che sensazioni di apparente disagio possono portare a ottimi risultati. Obiettivo: creare un ambiente adatto a generare, nei limiti del possibile, l’ingresso in Zona.
Entrarci è più facile nel golf, un po’ meno nel tennis (contro un Djokovic c’è pur sempre un Nadal), molto meno negli sport di squadra, anche se percentuali di realizzazione straordinarie nel basket hanno di sicuro a che fare con la Zona. Un esempio di Zona «prolungata» la sta vivendo in Nba, da due settimane, James Harden, le cui percentuali al tiro da tre, come spiega il coach dei Rockets Mike D’Antoni, «fanno pensare che James stia vivendo una dimensione quasi mistica». Per entrare in Zona ci si può aiutare con ipnosi, musica, yoga. Ma se, interrogati da un gruppo di ricercatori australiani, il 66% degli atleti ha dichiarato di «essere in grado di riconoscere e controllare a proprio vantaggio la Zona, quando arriva», solo tre su cento hanno capito (o pensano di aver capito) come entrare in Zona da soli.