il Giornale, 29 gennaio 2019
Intervista ad Andrea Muccioli: «Contro la mia famiglia solo fango e promesse tradite»
Andrea Muccioli aveva 13 anni quando suo padre Vincenzo fondò la comunità di San Patrignano e ne avrebbe compiuti 47 un mese dopo l’agosto 2011, quando un comunicato con firma sua e di Letizia e Gian Marco Moratti ne annunciava l’estromissione. Bilanci troppo in rosso, secondo i coniugi che da anni finanziavano l’opera. Andrea, sposato, tre figli e altrettante lauree, aveva passato quasi 35 anni sul colle sopra Rimini, di cui sedici alla guida dopo la morte del padre. Si ritrovò senza lavoro, senza soldi («tutti gli accordi furono disattesi», rivela oggi), coperto di accuse infamanti e con un cognome indissolubilmente legato a Sanpa. Dopo otto anni Muccioli rompe un doloroso silenzio raccontando la sua nuova vita, «un cambio totale, integrale, profondo».
Che lavoro fa oggi?
«Adesso vengo da quattro mesi di ospedale a Edimburgo. Eravamo in vacanza in Scozia da tre giorni quando mio figlio più piccolo si è ammalato di un’infezione encefalica che l’ha ridotto in gravissimo pericolo. Abbiamo deciso che io sarei rimasto con lui. Fortunatamente abbiamo festeggiato Natale in famiglia a casa, e ora devo ripartire di nuovo perché nel frattempo i contratti si sono esauriti e da lontano non potevo cogliere altre occasioni».
Di che cosa si occupa?
«Faccio il consulente nel settore in cui mi sono formato e che è una delle passioni della mia vita, cioè l’agricoltura, la filiera agroalimentare e la cucina. A San Patrignano era partito da me il progetto enogastronomico diventato un’eccellenza della comunità, una passione che ha contagiato i ragazzi».
Cantina vinicola, caseificio, cavalli.
«La sensibilità e la straordinaria passione per la natura avevano portato mio padre a essere un grande allevatore. Quando morì, la produzione della fattoria era rivolta all’autoconsumo. Avevo già cominciato a trovare canali commerciali esterni alle produzioni che stavano raggiungendo un’eccellenza sempre perseguita. Ho sviluppato queste attività che avrebbero dovuto sostenere economicamente la comunità, e al contempo veicolare all’esterno l’immagine delle grandi capacità della nostra formazione professionale e dei percorsi educativi».
C’era anche un aspetto terapeutico in queste attività?
«Se non ci fosse stato, non avrebbe avuto senso fare nulla. Era un entusiasmo contagioso, accompagnato da visione e capacità costruttiva. Una visione alta e controcorrente, che vedeva nell’ultimo il primo. Il fallito, il disperato, aveva le potenzialità di uno spirito elevato. Credo di aver ereditato da mio padre questo sguardo oltre le miserie umane, il dolore, i tanti errori».
Quale visione portò a San Patrignano?
«La possibilità di raggiungere l’eccellenza con le nostre produzioni quando era difficile perfino immaginarla. Nessuno scommetteva sul sangiovese, ma io vedevo i nostri vini sulle tavole del Bulli e di Pinchiorri, e ci sono arrivati. E mi pare che il traino più importante di quella realtà siano ancora le produzioni agroalimentari. In questa parte della mia vita sto cercando di rendere professione questa passione».
E le competenze sociali ed educative maturate in comunità?
«Non ho più avuto l’occasione di metterle a frutto: non l’ho cercato più di tanto, e comunque nessuno me l’ha chiesto».
Ne è dispiaciuto?
«Prima cercavo di rappresentare meglio che potevo la voce di tanti ragazzi e famiglie in difficoltà che mi chiedevano rappresentanza nel complesso dibattito su dipendenza, droga, educazione, disagio. Non ho mai parlato per me, mai ho cercato la ribalta, quasi mi dispiaceva essere un personaggio pubblico. Avendo lasciato questo ruolo, non mi è sembrato appropriato rappresentare me stesso e le mie idee».
Se si ripresentasse un’occasione?
«Mi piacerebbe, soprattutto dopo questo periodo. La distanza da certi contesti e certi problemi, una volta depositata la polvere, consente di vedere con maggiore chiarezza e obiettività, guadagnando anche più serenità e umiltà nella lettura dei processi e delle problematiche. Mi piacerebbe potere trasmettere quella che ritengo sia una grandissima esperienza e che penso potrebbe essere, lo dico sommessamente, un patrimonio utile. Però non sono uno che va in chiesa a dispetto dei santi. Se qualcuno fosse interessato può sempre venire a cercarmi».
Lei dice che la polvere si è posata. Dopo otto anni, che cosa si può dire di quello strappo?
«Che è stato molto profondo. Quando vivi la tua intera esistenza dedicando ogni energia a persone in cui credi, e poi ti trovi all’improvviso a essere lasciato completamente solo, dimenticato, colpito nella tua stessa dignità dalle persone che pensavi facessero parte della tua famiglia, è come se l’identità costruita in quel luogo negli anni fosse completamente portata via».
Una vita bruciata.
«A 47 anni mi è stata negata mio malgrado la mia identità senza che mi fossi mai costruito alternative. Io non ho mai vissuto parandomi il posteriore, anzi posso dire con la coscienza tranquilla di avere sempre vissuto parandolo agli altri, a costo della mia stessa incolumità. Quando difendi la vita di qualcuno a oltranza, al di là della protezione della tua stessa vita, fai qualcosa di importante ma anche di rischioso. Gli consegni la tua vita. Ma quando tutto quello in cui hai creduto rischia di crollare, ti trovi disperatamente solo. Io mi sono trovato in queste condizioni, in una profonda depressione».
È stato il suo dolore più forte?
«Il peggio è stato vedere vivere questi stessi sentimenti ai miei figli e a mia moglie: anche lei aveva dedicato tutta l’attività professionale alla comunità, per 25 anni aveva fatto gratuitamente l’avvocato per figli e genitori. Eravamo disperati, soli, impediti anche solo di vedere e contattare le persone che facevano parte dei nostri affetti più vicini, come a loro era impedito di avere contatti con noi pena l’estromissione. Ma la cosa più dolorosa è stata vedere nei ragazzi lo stesso senso di vuoto e disperazione. Loro non si meritavano questo. Quando si vuole mettere la foto di mio padre su quanto la comunità rappresenta, non ci si può dimenticare né di sua moglie né dei suoi figli né dei suoi nipoti».
Errori ne ha fatti?
«Sicuramente non quello di rubare o di essermi appropriato di un euro della comunità. Lo sapevano benissimo tutti, a cominciare dai Moratti. Invece è stato buttato fango su di noi, oltre alla sottrazione degli affetti, il che ha reso la nostra situazione ancora più drammatica, dolorosa e difficile. Benché la stragrande maggioranza di immobili e terreni di San Patrignano sia stata donata dalla mia famiglia, mia madre è stata fatta sentire un’estranea in casa sua, tanto da costringerla a portare via la salma di mio padre. Quando ha scritto i suoi sentimenti e ha chiesto di essere quantomeno tutelata per i pochi anni che le rimanevano, perché aveva soltanto 700 euro di pensione avendo dato tutto ciò che aveva, non le è stato nemmeno risposto».
Chi vi è rimasto vicino?
«Nessuno. Nessuno».
Dove ha trovato forza per ripartire?
«È una forza che non avevo in quel momento e nemmeno mia moglie. Vedere i figli depressi e soli, scioccati perché anche loro non avevano più asilo o contatti con i figli degli altri con cui erano cresciuti, e non avere le energie per aiutarli a risollevarsi, questo è stato terribilmente doloroso».
A Rimini ha trovato solidarietà?
«Quando stai così male dentro, forse è difficile anche trovare consolazione. Ho trovato solidarietà in molte persone anche fuori Rimini, più difficile è stato trovare un sostegno per dare un minimo di sussistenza alla mia famiglia. Sono uscito da San Patrignano praticamente senza nulla. Nessuna promessa è stata mantenuta».
Avevate accordi economici?
«Ho lettere e mail degli avvocati, registrazioni dei momenti più cupi e grotteschi dei vari confronti, delle discussioni e dei complotti. Ma ormai fortunatamente queste cose mi sono distanti. Ora mi sento pacificato, non ho livori».
Quant’è durata questa fase?
«Anni. È stato un annientamento di identità, come gli indiani costretti a vivere nelle riserve o emigrare in Canada, dove peraltro erano state sottratte loro le possibilità di sopravvivenza perché avevano ucciso tutti i bufali. Ecco, a me hanno anche ucciso i bufali».
Che cosa intende dire?
«Ero un personaggio pubblico, magari conosciuto per il carattere difficile, ma credo anche per l’onestà, la serietà, la coerenza. Si cercò di infangare il mio nome con accuse ignominiose e false; furono passati in rassegna tutti i miei contatti dicendo di decidere se essere amici di tizio o nemici di caio: piuttosto che mettersi contro una delle famiglie più potenti d’Italia, molti hanno preferito fingere di non avermi mai incontrato».
Un annientamento dell’identità interiore e affettiva e insieme un annientamento sociale: è così?
«È come quando prendi i cadaveri e li esponi al ludibrio, li bruci e dai i resti ai cani. Bastava l’esecuzione in piazza, se non per me, almeno per rispetto dei nipoti di mio padre e della sua volontà che era quella di fare vivere me, i miei figli e mia moglie in una condizione di sicurezza, se non di agio. Essere stati costretti a tanto dolore, a mio avviso in gran parte gratuito, è stato fonte di ulteriore dolore e di enorme difficoltà nella transizione a una vita diversa».
E adesso?
«Posso dire intanto che sono contento di essere ancora vivo, perché per lunghi periodi ho pensato che avrei fatto fatica anche a sopravvivere. Ma fortunatamente siamo tutti vivi, siamo ancora insieme e siamo stati capaci di affrontare un trauma forse ancora peggiore, come quello di vedere un figlio che rischia di morire, passando quattro mesi in ospedali stranieri con il pensiero costante che se mai fosse sopravvissuto avrebbe sopportato deficit gravissimi. Credevo di averne viste tante, forse troppe, invece c’è sempre qualcosa di più da affrontare nella vita. Sono certo di essere riuscito ad accompagnare Jacopo e la mia famiglia in questo processo difficile e doloroso perché nel frattempo ero riuscito a ricostruire dentro me stesso una serenità e una forza che certamente avevo perso».
Dove le ha ritrovate?
«Sono stato costretto a guardarmi dentro in profondità. Se vuoi sopravvivere a questi processi di annientamento, hai due strade: la prima è continuare a dare la colpa agli altri, che ce l’abbiano o no. Ma a un certo punto capisci che l’odio, la rabbia, il rancore non portano da nessuna parte».
E qual è l’alternativa?
«Se vuoi avere ancora una vita che superi gli eventi negativi e ti porti a un orizzonte nuovo, fatto di speranza e positività, devi guardarti dentro e cercare di mettere a posto ciò che non va: le contraddizioni dentro di noi, le incoerenze, le piccole disonestà, le paure, perché la rabbia è sempre portata dalla paura. Quando, con molto tempo e molta fatica, con coraggio e umiltà, sei riuscito a fare questo percorso, finalmente puoi tornare a respirare in modo ampio, sereno, profondo. Sono contento di essere riuscito a esserci con Jacopo così come lui e la mia famiglia avevano bisogno che ci fossi: è stato per me la prova che ero in qualche modo tornato, che c’ero ancora».
Un fatto così drammatico le ha restituito uno sguardo positivo.
«Se hai la fortuna di arrivarci con la forza, l’energia e la serenità necessaria, riesci ad affrontare le prove in maniera positiva. Nello stesso tempo mi interessa rimarcare che mi sento distante dalle inquietudini del passato, non mi sento più coinvolto con quella storia».
Muccioli resta però un cognome inseparabile da San Patrignano.
«Spesso ancora la gente in giro mi chiede come va in comunità. Sorridendo dico che non lo so, non posso saperlo. Evidentemente il nome è identificato con il ricordo di quel luogo. Forse è normale: la mia famiglia vi ha passato 35 anni dedicando interamente se stessi, tutta la propria vita, tutto il proprio tempo e tutte le proprie sostanze».
Che cosa le manca?
«Camminare tra le vigne ogni tanto. Allora vado da qualche mio amico e cammino nelle vigne loro».
Non più nelle sue.
«Non le ho mai considerate mie, mi creda, ma delle persone a cui servivano. Avevo un grande senso di appartenenza a quel luogo, ma non l’ho più».
E che ricordi conserva?
«È il luogo in cui ho cercato di fare e dare quello che potevo con mio padre, a mio padre e dopo mio padre, e sono molto orgoglioso di non essermi risparmiato o tirato indietro. Poi è venuto meno tutto, sodalizi, patti, impegni. La storia è andata diversamente e ora non mi riguarda più. Mi auguro però che possa essere ancora d’aiuto, perché c’è tanto bisogno di luoghi di formazione e di educazione per i ragazzi».