il Giornale, 29 gennaio 2019
Il successo economico della Premier League
Agosto 1992. Sul campo del Manchester City c’è aria di festa: per la partita con il Queens Park Ranger ci sono fuochi d’artificio, musica e majorettes. È il primo Monday Night del calcio inglese: per la prima volta si spezza la sacralità degli incontri concentrati il sabato pomeriggio e il week end si allunga con una formula direttamente copiata (nome compreso) dal football americano. Ad approfittarne la pay tv di Rupert Murdoch, BSkyB, che poche settimane prima aveva siglato il primo contratto di esclusiva con i club inglesi e che per la ripresa dell’incontro usa tecniche, come l’uso intensivo del replay, fino ad allora inedite.
Quel lunedì sera è diventato nel tempo una data simbolica e segna l’atto di nascita di uno dei fenomeni sportivi, economici e culturali più rilevanti degli ultimi anni: la Premier League, il campionato di calcio più famoso al mondo. I ventisei anni trascorsi da allora segnano una cesura profonda: all’inizio degli anni Novanta il calcio britannico è in crisi, oscurato da campionati come la Serie A, allora in pieno fulgore. Nel maggio dell’85 scoppia un incendio nello stadio del Bradford: 56 morti; poche settimane dopo gli hooligan del Liverpool fanno 39 vittime all’Heysel di Bruxelles; nel 1989 all’Hillsborough Stadium di Sheffield i morti per la calca sono 96. Anche in conseguenza di queste stragi gli stadi si svuotano, la copertura televisiva è praticamente inesistente. Tutto il contrario di oggi: la Premier League è un colosso sportivo secondo solo al basket dell’Nba e al football americano della Nfl, garantisce ai suoi club incassi annui per 5,3 miliardi di euro, il valore delle squadre è passato dai 50 milioni del 1992 ai 10 miliardi di oggi. E non ci sono solo i dati finanziari.
COME ALL’ONU
I Paesi in cui vengono trasmesse le partite sono 185, praticamente l’intero globo terrestre, visto che le nazioni aderenti all’Onu sono di poco superiori, 193. Quando il primo ministro britannico viaggia nel mondo, soprattutto in Asia, porta spesso con sé i dirigenti della Premier e la Coppa, che viene esposta quasi come una reliquia ed è considerata uno dei testimonial più efficaci della british way of life. «Ormai siamo un simbolo del Paese», ha detto in un’intervista Richard Scudamore, il manager che per quasi 20 anni e fino al 2018 ha guidato la Premier. «Un po’ come la Bbc o la Regina».
Tra i due estremi c’è il percorso che ha portato alla creazione «di uno dei più grandi imperi dell’intrattenimento dell’era moderna», come hanno scritto in un libro appena uscito, The Club», due giornalisti del Wall Street Journal, Joshua Robinson e Jonathan Clegg. Il punto di partenza è la decisione presa da un pugno di persone di vedere il calcio come una forma di spettacolo da cui ricavare un ritorno finanziario. Prospettiva che appare oggi quasi ovvia ma del tutto estranea al calcio inglese degli anni 80. Tra i «pionieri» ci sono David Dein, azionista e manager dell’Arsenal, Irving Scholar, immobiliarista e padrone del Tottenham, Martin Edwards, erede di un piccolo impero nel settore della macellazione e patron del Manchester United. A loro si aggiungono i vertici dell’Everton e del Liverpool. In tutto una ventina di squadre decidono di uscire dalla vecchia First division.
SPETTATORI NON SOLO TIFOSI
Il modello è la National Football League, il massimo campionato americano di football americano, e la scelta è quella di puntare sui diritti pagati dalle televisioni a pagamento, scommettendo sul fatto che i nuovi incassi non siano destinati a cannibalizzare quelli degli spettatori sui campi da gioco. Ma non è solo questione di tv. A Dein, vice presidente dell’Arsenal, viene attribuita una vera e propria ossessione per i bagni. Durante un viaggio negli Stati Uniti paragona lo stato dei servizi nelle arene americane con quelli dei malandati stadi inglesi dell’epoca. I nostri tifosi non sono capi di bestiame, ma spettatori di uno show, dice, bisogna rispettarli. Anche per tenere lontani gli hooligan le tribune di molti impianti vengono ristrutturate, rese più comode ed accoglienti. Il Tottenham è la prima squadra ad abbattere un settore destinato al pubblico più popolare e a sostituirlo con dei box che, affittati alle aziende, garantiscono una ritorno economico molto più rilevante.
A risultare decisivo per lo sviluppo di un campionato competitivo, in grado di mantenere alto l’interesse del pubblico, è una clausola contenuta già negli accordi costitutivi della Premier: i 20 club di élite decidono che i proventi televisivi saranno distribuiti con criteri egualitari. Tra il club meno seguito e quelli maggiori non si potrà superare il rapporto 1/1,6. È una caratteristica tipicamente inglese che si allontana dal metodo seguito in quasi tutti gli altri Paesi: in Germania e Spagna il rapporto tra quanto incassato dalle squadre più piccole e dalle grandi è 1 a 3, in Italia supera addirittura l’1 a 4. Il risultato è che in Inghilterra anche gli ultimi in classifica hanno proventi di rilievo: un club come il Sunderland nell’anno in cui è stato retrocesso, il 2017, ha incassato 93,4 milioni, più o meno quanto versato dalla Lega francese ai campioni del Psg.
I SOLDI E LE BIG SIX
Diritti televisivi, massimizzazione degli incassi per la vendita dei biglietti (il tasso di riempimento degli stadi è pari a uno stupefacente 95%), un merchandising che copre cinque continenti hanno innalzato a livelli record gli introiti delle squadre. Ovviamente inglese è la squadra che incassa di più al mondo (con il Real Madrid), il Manchester United con 676 milioni di euro.
A favorire l’ascesa del calcio dell’isola, dicono Robinson e Clegg, sono due fattori che sembrano quasi ovvi, ma che hanno contato molto: prima di tutto il fatto che i protagonisti, calciatori e allenatori, usano la lingua del mondo, l’inglese; in secondo luogo che l’orario scelto per gran parte delle partite, il sabato pomeriggio, è perfetto per un prime time televisivo in Asia, ma che si presta anche a un consumo tv del sabato mattina negli Usa.
Ora il dubbio è che la corsa possa continuare. Robinson e Clegg sottolineano le prime crepe, come gli inediti dissidi per l’accaparramento di una fetta maggiore degli incassi internazionali (le big six, Chelsea, Arsenal, Tottenham, Livepool, Manchester City e United, si sono appena assicurate una fetta più grossa dei diritti internazionali). A pesare poi è una questione più profonda. I club inglesi sono ormai marchi globali con fan ovunque nel mondo. Ma l’appeal internazionale, accompagnato da prezzi più alti, rischia di mettere in crisi e di allontanare il supporter più fedele: l’inglese medio che fonda sulla propria squadra una fetta di identità personale.