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 2019  gennaio 29 Martedì calendario

Shia LaBeouf: «Ero andato in pezzi e una ragione c’era»

PARK CITY (UTAH) L’ex ragazzo d’oro di Hollywood non è morto. È solo svenuto. «Con il cinema non ho mai pensato di salvare nessuno né di diventare un modello per i giovani. Stavo andando a pezzi, mi sgretolavo piano piano. Così ho deciso di renderlo pubblico». Quando, su ordine del giudice, a Shia LaBeouf è stato chiesto di tenere un diario per provare a fermare i traumi della sua infanzia, l’attore losangelino, 32 anni, ha trasportato i ricordi in una sceneggiatura e ne ha tratto un memoir: Honey boy, uno dei titoli più attesi al Sundance, accolto con una standing ovation ma ancora senza distribuzione. Shia il rinnegato, Shia la vergogna dei tabloid: dal sacchetto infilato in testa a Berlino, con scritto "Non sono più famoso", al rehab, dove è entrato per disintossicarsi dalla dipendenza da alcol. Nel film scritto da LaBeouf e diretto da Alma Har’el, la curiosità del pubblico è indovinare proprio da dove arrivi tutta la rabbia e il carattere sovversivo della star dei Transformers. «È strano alterare la mia vita, il dolore e le mie insicurezze. Trasformarle in feticismo, farne quasi un prodotto da vendere sul mercato» racconta all’Eccles Center, felpa grigia, un paio di jeans, Nike ai piedi, i capelli riccioluti castano scuro con qualche punta bianca sopra la fronte. Un James Dean arruffato, proiettato in avanti nel tempo sin dai primi ingaggi per Disney Channel e i comedy clubs.
La regista Har’el gli massaggia le spalle, sussurra due parole all’orecchio, lo abbraccia prima dell’incontro con la stampa. Shia è teso, nervoso. Honey boy, semi-autobiografico, nasce subito dopo l’arresto in Georgia, nel 2017, per "ostruzione, comportamento molesto e stato di ebbrezza in luogo pubblico". LaBeouf interpreta nientemeno che suo padre, alcolista, violento, clown da rodeo mantenuto dal figlio Otis, un attore prodigio con gli occhi verdi di Shia, qui messo in scena da due sosia: Noah Jupe in versione dodicenne (1995) e Lucas Hedges in riabilitazione (2005). Due ciak, due linee temporali separano gli Shia pre e post-successo. Padre e figlio (la madre, Shayna, era una ballerina e lavora ora come artista visiva) viaggiano in California su una motocicletta in un paesaggio che sbiadisce; sul sedile posteriore Otis accarezza col casco tutto cromato la testa del papà. Il padre lo colpisce in fronte, rimettendolo al suo posto. Si tengono per mano solo di nascosto («Non vorrai che tutti pensino che me la faccio coi bambini?»). Vivono in un sordido motel lontano anni luce dai mitici Oakwood Apartments, le "cuccette delle celebrità" dove gli studios, ancora oggi, creano le baby-star di Hollywood, per poi seppellirle non appena le banche di L.A. sono sotto pressione. «Perché volete togliermi l’unica cosa che mi ha lasciato mio padre? Il dolore», dice a un certo punto Otis/Shia alla psichiatra addetta alla sorveglianza di persone in libertà provvisoria. «Non mi sono mai tirato indietro dal dolore, non l’ho addolcito, non ci ho messo furbizia. È una linea d’ombra che fa parte della mia personalità» prosegue l’attore.
«Poi però mi sento in colpa. Mi sembra di essere un egoista a condividere tutto questo con voi. Chi siete?». A Variety aveva dichiarato: «Le persone che rispetto mi hanno fatto capire che la vita è troppo breve per le bravate che combino». E se fosse stato una donna nello showbiz, aggiunge, «la mia carriera sarebbe terminata da un pezzo.
L’industria usa due pesi e due misure. Alle donne è richiesta la grazia per mantenere longevità nel lavoro. Non credo che a un uomo di spettacolo sia imposta la stessa cosa. Puoi essere tranquillamente Mickey Rourke!». Gli domandiamo se sia un attore "da metodo", come Marlon Brando o Heath Ledger.
Risposta: «Questo termine — metodo — sta proprio diventando antipatico». Shia pensa mai ai suoi fan? «Non mi è mai saltato per la testa: non sono il tipo che si chiede, oh, aspetta, fammi un po’ aiutare la gente con il lavoro che faccio; fammi lanciare un messaggio. Il mio obiettivo è un altro». LaBeouf e suo padre, Jeffrey Craig LaBeouf, veterano del Vietnam, non si sono cercati né parlati per anni. Ma, a Park City, Shia rivela di aver ripreso contatti poco tempo fa. «Prima che scrivessi e recitassi in Honey boy, mio padre ed io siamo rimasti per i fatti nostri per almeno sette anni» racconta.
«Ora ci parliamo di nuovo, stiamo ricostruendo il rapporto». La scena di apertura del film ci trasporta sul set di un action con stunt, spari ed esplosioni. LaBeouf ha recitato anche in Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo e sul regista Steven Spielberg le sue parole non sono state tra le più miti: «Ti presenti in scena e capisci che non stai incontrando lo Spielberg che sognavi. Incontri uno Spielberg differente, in un diverso stadio della sua carriera. È più simile a un’azienda del c...o!».
Poi ci ripensa: «Però grazie a lui ho avuto grandi opportunità». Al pubblico di Honey boy ha dedicato un "grazie" e qualche lacrima: «I film migliori sono sempre i più semplici e sinceri. Questo è un film su chi siamo e su ciò che ereditiamo». Dai padri hippy, dagli errori, dalla strada. «Farci i conti, mentre tutti attorno guardano e ti giudicano, è stata la mia sfida più grande». Stando all’accoglienza al Sundance, la sfida di Shia può dirsi vinta.