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 2019  gennaio 29 Martedì calendario

«I miei 30 anni in prima linea a Kabul»

Il primo ricordo è in fondo la stessa cosa che, 30 anni dopo, lo tiene ancora incatenato: «Il carattere degli afgani. Non avevo mai visto un ferito da mina prima, né tanti giovani rimasti senza arti. Mi sono ritrovato con decine di ragazzi feriti, anche bambini: il futuro di un intero Paese mutilato. Erano calmi, rassegnati. Pronti a ripartire: e io mi chiedevo che cosa avrei fatto al posto loro. Una forza che ancora oggi mi colpisce». Pochi giorni fa a Kabul, il programma di riabilitazione del Comitato internazionale della Croce rossa che dirige ha festeggiato le tre decadi di attività. L’avvocato piemontese diventato fisioterapista, l’uomo che l’intera città conosce come "Mr. Alberto" e che con il suo team ha restituito a migliaia di persone la possibilità di vivere, ci tiene a precisare.
«All’inizio io non c’ero, non voglio prendermi meriti che non ho. Il programma l’ho sviluppato, non creato».
Va bene dottor Cairo. Però mese in più o mese in meno, non può negarlo: ha 66 anni ed è in Afghanistan da 30…
«Sto diventando anziano — dice ridendo — fra 2 anni probabilmente dovrò lasciare la Croce Rossa internazionale. Ma ho già un progetto alternativo per restare».
Partiamo dal principio: che Afghanistan si è trovato davanti quando è sceso dall’aereo?
«Un Paese alla fine. I russi erano partiti ed era chiaro che il regime del presidente Najibullah era agli sgoccioli. Chiudevano le ambasciate, la gente fuggiva. Nel ’92 arrivarono i mujaheddin: iniziò una terribile guerra civile. Noi restammo: all’inizio curavamo solo i feriti di guerra, poi aprimmo a tutti. Iniziammo a mandare i bambini a scuola e a insegnare un mestiere agli amputati: decidemmo che nei nostri centri dovevano lavorare soprattutto loro, e così oggi il 98% del personale è formato da disabili. Iniziammo anche a elargire prestiti agli ex pazienti per aprire piccole attività. Il risultato è che siamo riusciti a passare indenni attraverso quattro regimi e governi».
Talebani compresi: come avete fatto?
«Nei nostri centri ortopedici oggi trova un comunista e un mujaheddin l’uno accanto all’altro, e un talebano vicino a loro. La disabilità appiana le differenze, e noi curiamo tutti. Ogni governo questo lo sapeva: non ci aiutavano, ma neanche ci ostacolavano. Con i Talebani fu difficile: erano sospettosi, imponevano regole assurde. Fingevamo di assecondarli. L’Afghanistan era una scatola chiusa: per fare una telefonata una persona normale doveva andare in Pakistan, non c’erano linee. Le donne erano scomparse sotto i burqa: e io, in contrapposizione a tutto questo, portavo alle infermiere e alle terapiste foulard alla moda e profumi dall’Italia».
Poi arrivarono gli attentati del settembre 2001 negli Stati Uniti: e tutto cambiò di nuovo…
«Fu una fase di grande entusiasmo. Tutti pensavamo che questa volta l’Afghanistan ce l’avrebbe fatta davvero, si sarebbe risollevato perché ora c’erano gli Occidentali, i soldi, la volontà politica. Durò un paio di anni, il tempo di spostare l’obiettivo sull’Iraq: fu la delusione peggiore. I signori della guerra rimasero al potere, la corruzione tornò a dilagare, i programmi di sviluppo che tanto in fretta i Paesi occidentali avevano inaugurato furono abbandonati. Per tanti afgani divennero il simbolo del tentativo di egemonia dell’Occidente: furono spazzati via. Se vuoi durare in Afghanistan devi provare la tua appartenenza al Paese, alla sua cultura. Il rispetto per la tradizione, che qui è fondamentale».
Lei lo ha fatto?
«Direi di sì. Non sono andato in Afghanistan per soffrire con la gente, come pensano molti, ma per gioire con loro. Il lavoro che faccio è gratificante al massimo: vedere qualcuno arrivare nei nostri centri camminando a quattro zampe o in ginocchia e poi assisterlo mentre piano piano si ricostruisce una vita, con le protesi, con l’idea di un’istruzione o di un nuovo lavoro.
Vedere la speranza negli occhi di questa gente quando esce, restituire loro la dignità perduta: è un grande privilegio».
Il vostro lavoro, per quanto importante, non può rimettere a posto un Paese martoriato da decenni di guerra…
«No, non può. C’è bisogno di pace, la gente è così stanca che accetterebbe qualsiasi accordo pur di avere sicurezza. Ma c’è un prezzo da pagare e in Afghanistan lo sanno molto bene: soprattutto le donne. Saranno loro a subire le conseguenze peggiori di un eventuale ritorno dei Talebani: ne sono pienamente consapevoli. E sono molto spaventate. Se tornerà la discriminazione nei confronti delle donne sarà doloroso e tristissimo, una sconfitta per tutti».
Però lei dice che resterà comunque: ci racconta il progetto a cui vuole dedicarsi?
«Collaboro già con una piccola associazione romana che si chiama Nove Onlus, fanno progetti bellissimi per le donne e per i disabili. Lavorano anche sullo sport. Resterò con loro. Abbiamo messo su squadre di pallavolo e basket per disabili: sia maschili che femminili. Giocano in carrozzella e stanno andando benissimo, vincono partite su partite, anche all’estero e fra qualche settimana faremo un torneo nazionale: 120 afgani indisciplinati in campo, sarà durissima».
E lei che cosa farà?
«Io sarò l’arbitro. Mi aspettano tre giorni di formazione. In Afghanistan le sfide non finiscono mai».