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 2019  gennaio 29 Martedì calendario

Biografia di Dick Cheney

Dick Cheney (Richard Bruce C.), nato a Lincoln (Nebraska, Stati Uniti) il 30 gennaio 1941 (78 anni). Politico. Ex vicepresidente degli Stati Uniti (2001-2009), ex segretario della Difesa (1989-1993), ex capo di gabinetto della Casa Bianca (1975-1977). Ex deputato del Partito repubblicano per il Wyoming (1979-1989). «Più a destra di Ford, di Rumsfeld e persino di Gengis Khan» (Robert T. Hartmann, consigliere del presidente Ford dal 1974 al 1977). «I princìpi vanno bene fino a un certo punto. Ma i princìpi non ti servono a niente se perdi» • «Uno dei nonni faceva il cuoco alle dipendenze della Union Pacific. […] Un altro era cassiere in una banca che fallì durante la Depressione. Suo padre era stato per decenni impiegato dell’Agenzia federale per la Conservazione del territorio. I genitori erano democratici del New Deal, fieri che Dick fosse nato il giorno del compleanno di Franklin Roosevelt» (Siegmund Ginzberg). Crebbe «a Casper, in Wyoming, in una cittadina il cui sviluppo era legato al petrolio (come era stato per i Bush a Midland, in Texas). Fu grazie alla raccomandazione di un petroliere locale che riuscì a iscriversi all’Università di Yale, un sogno di promozione sociale. Ma non riuscì mai a laurearsi, se non molto più tardi, in un’università di serie B. Ripetutamente bocciato agli esami, finì col trovarsi un lavoro a Rock Springs, in Wyoming, nella costruzione della linea di trasmissione elettrica dall’invaso ai confini con lo Utah. A quegli anni risalgono anche quelle che, quando le dovette tirare fuori alle udienze per la conferma dell’incarico a segretario della Difesa nell’amministrazione di Bush padre, definì “indiscrezioni giovanili”. Fu due volte arrestato per guida in stato di ubriachezza e una volta colto in flagrante e multato per pesca di frodo, fuori stagione. “La cosa peggiore non fu la multa di 25 dollari, ma che mi sequestrarono il pescato”, avrebbe confessato nel raccontare la vicenda» (Ginzberg). «Non fa il servizio militare, prima perché studente poi perché sposato con prole» (Rosa Femia). «Dick Cheney, intervistato nel 1989 dal Washington Post sul perché non avesse fatto il servizio militare durante la guerra in Vietnam: “Allora avevo altre priorità”» (Marco d’Eramo). «A destra, ci sarebbe arrivato per caso. […] Semplicemente perché, quando nel 1965 decise di presentarsi al concorso per collaboratori al Parlamento locale del Wyoming, c’erano solo due posti disponibili: uno andò a un militante della gioventù democratica, e l’unico altro posto, in virtù dell’informale locale “manuale Cencelli”, era quindi a disposizione di qualcuno che dichiarasse simpatie repubblicane» (Ginzberg). «Il nostro è già in prima fila nel 1968, quando lascia il Wyoming (dove è cresciuto) per sbarcare a Washington. Qui conosce Donald Rumsfeld, e i due collaborano nell’amministrazione Nixon. Il Watergate non li macchia: si “riciclano” con Gerald Ford, dando anche inizio a una “notte dei lunghi coltelli” nel Partito repubblicano. Lavorano per tagliare fuori dal ticket elettorale del 1976 il vicepresidente Nelson Rockefeller; spingono per la rimozione di Henry Kissinger dalla poltrona di consigliere per la Sicurezza nazionale; contribuiscono alla nomina di George Bush senior a capo della Cia; fanno allontanare James Schlesinger dalla poltrona di segretario della Difesa. Al posto di Schlesinger va Rusmfeld; Cheney lo sostituisce nel ruolo di capo dello staff di Ford. Nel 1979 Cheney arriva in Parlamento: fino al 1989, per dieci anni, sarà deputato del Wyoming, Stato di petrolieri e industriali del carbone, e pezzo forte del Partito repubblicano, al cui interno scalerà progressivamente posizioni. La fine dell’epoca Reagan e il quadriennio di presidenza di Bush gli permettono di rientrare alla Casa Bianca: sotto George padre sarà segretario della Difesa, unendosi a quel vasto “centro” della politica americana – composto da repubblicani e democratici moderati – favorevole a proseguire l’impegno di Washington in Europa tramite l’allargamento e la ridefinizione della Nato, e opponendosi alle ipotesi di invasione dell’Iraq e rovesciamento di Saddam Hussein. Estromesso dalle leve del potere a Washington dopo la vittoria democratica del 1992, Cheney entra nel “big business”: siede nel consiglio d’amministrazione della Procter & Gamble, della Union Pacific, e tra il 1995 e il 2000 è direttore esecutivo e presidente del colosso energetico Halliburton. L’impegno negli affari non implica l’esclusione dalla politica. È il momento del Cheney stratega, il Cheney organizzatore e “grande vecchio” del Partito repubblicano. È il perno della costruzione del sistema di potere dell’America bushista, sinteticamente riassunto nell’alleanza tra grande finanza, intellettuali neoconservatori e destra evangelica cristiana: la prima ci mette i soldi, i secondi le idee e la terza i voti. L’uomo d’affari Cheney è il garante della prima, l’uomo politico Cheney è il finanziatore e il tutore dei secondi e il mediatore politico della terza. Anima il dibattito politico americano, seppure indirettamente. È vicepresidente del Jewish Institute for National Security Affairs (Jinsa); la moglie Lynne siede nel board dell’American Enterprise Institute; è il fondatore nel 1997 insieme all’inseparabile Donald Rumsfeld del Project for the New American Century (Pnac). Tramite gli intellettuali neoconservatori ridefinisce l’agenda del Partito repubblicano, portandola oltre l’ortodossia conservatrice: uso disinvolto del bilancio pubblico; accentramento di poteri e prerogative nelle mani dello Stato centrale; politica di dichiarato interventismo a livello internazionale» (Marco Arcieri). In vista delle elezioni presidenziali del 2000, George W. Bush, figlio primogenito dell’ex presidente George H.W. Bush (1924-2018), scelse Cheney come candidato alla vicepresidenza, tra la sorpresa di molti. «Cheney era quello che sapeva pilotare la nave, il padrone dei meccanismi del palazzo con rapida capacità di decisione ed esecuzione, accompagnate da quella particolare abilità nell’incutere timore che è coessenziale al potere. Bush lo sapeva perfettamente. Per questo lo aveva voluto come vicepresidente, buttando a mare tutte le controindicazioni possibili, dalla figlia lesbica al cuore che aveva subìto il primo infarto quando aveva 37 anni. Dato che era Cheney stesso il selezionatore dei candidati, nel dubbio disse a Bush che già nei questionari preliminari tutti gli altri “vicepresidenziabili” mostravano gravi lacune o potenziali complicazioni. Lui rimase l’unico candidato al posto, e il questionario non lo compilò mai. Addirittura il giovane Bush aveva consigliato invano al padre, nel 1989, di scegliere Cheney nel ticket presidenziale e di scartare Dan “you’re no Jack Kennedy” Quayle. Si rifece in prima persona» (Mattia Ferraresi). «Il suo ruolo di organizzatore e architetto della grande macchina repubblicana si riflette nell’amministrazione. Il vicepresidente Cheney è il vero cervello politico di Washington, il motore della “presidenza imperiale”. Ne costruisce l’organigramma: Rumsfeld alla Difesa, i neoconservatori Wolfowitz e Armitage, Bolton e Abrams incastonati nei punti chiave. Determina la politica energetica dirigendo il National Energy Policy Development Group (Nepdg), la task force federale aperta al contributo dei colossi privati, Halliburton e Enron su tutti. Auspica la guerra in Iraq, diffondendo a piene mani le “prove” circa il possesso di armi di distruzione di massa o i contatti tra Saddam Hussein e Osama Bin Laden. È il timoniere della svolta interventista e “repressiva” in politica interna, a cominciare dal Patriot Act. Nel 1992, da segretario della Difesa, aveva pubblicato la Defense Planning Guidance, un memorandum circa la necessità di ribadire la supremazia politica e militare statunitense. Nel 2000 un documento del Pnac – il think tank neoconservatore da lui fondato – ripeteva il concetto. Nel maggio del 2002 Cheney consegna a Bush il documento finale del Nepdg, la National Energy Policy, con l’accento ancora posto sulla necessità di difendere con forza gli interessi vitali degli Stati Uniti. Nel settembre 2002 il governo pubblica la National Security Strategy, la dottrina della guerra preventiva. C’è un filo rosso che unisce questi quattro documenti: un filo rosso che nel 1992 era l’opinione personale di un politico autorevole, e dieci anni dopo diventa la politica ufficiale del governo degli Stati Uniti» (Arcieri). «Il suo ruolo fu anche contestato per il conflitto di interessi: per anni Cheney, intimo dei petrolieri Bush, ha guidato la compagnia di servizi petroliferi Halliburton, che dopo l’invasione ricevette commesse milionarie dal Pentagono in Iraq» (Angelo Aquaro). «Cheney ha imposto un metodo di lavoro e dettato i tempi di quella che è diventata la “lunga guerra al terrorismo”, interpretandola anche nei più piccoli dettagli. La sua agenda imponeva la sveglia alle 4.30 del mattino, seguita – due ore dopo – dal primo rapporto dell’intelligence, paginette in stile asciutto ma suc­cose per il palato di Cheney. Altre due ore, e il vice si sedeva davanti al capo. Faccia a faccia seguiti da colazioni di lavoro dove si prendevano decisioni importanti. Com­prese quelle che hanno portato alle misure speciali per neutralizzare i terroristi: dagli omicidi mirati alla detenzione dei qaedisti senza un processo regolare, dalle prigioni Cia alle torture. Dicono che l’ulti­ma parola fosse quasi sempre la sua. Iniziative non ortodosse che me­scolano carte e divise. Gli 007 si tra­sformano in Rambo e vanno a prendersi i militanti avendo cura di rispondere solo alla Casa Bian­ca. I soldati fanno il lavoro sporco dell’intelligence. A volte agiscono insieme. E Cheney si preoccupa di nascondere o proteggere program­mi che non possono essere com­presi da chi non ha stomaco. Men­tre lui, il vice, ne ha da vendere. Quando Al Qaeda colpisce l’Ameri­ca, il Secret Service lo fa sparire per metterlo a sicuro perché deve ga­rantire la continuità in caso capiti qualcosa di irreparabile a Bush. “Non sono d’accordo con quanti sostengono che l’11 settembre mi ha trasformato in uomo diverso – ha ricordato –, ma ammetto che assistere da un bunker all’attacco ha cambiato la percezione delle re­sponsabilità”. Un ruolo vero in un momento critico. Ben altro rispet­to a quando, nel giugno 2002, di­venta presidente pro tempore (ap­pena qualche ora): Bush doveva sottoporsi alla colonscopia. L’onda lunga delle Torri Gemelle spinge in alto Cheney, che per alcu­ni coordina e per altri dirotta la reazione degli Stati Uniti. Un’investitu­ra che accentua la riservatezza. Il suo staff ha l’ordine di triturare gli elenchi dei visitatori, mentre i files delicati finiscono in una grande cassaforte. O forse in tre. Racconta­no che segua personalmente, insie­me a Rumsfeld, una delle prime missioni dei Predator, gli aerei sen­za pilota diventati l’incubo dei ter­roristi in Pakistan. Loro – i taglia­gole – provano a fargli la festa or­ganizzando un’azione kamikaze, nel febbraio 2007, durante una visi­ta alla base afghana di Bagram. Epi­sodi di una sfida che per molti esperti non si è mai chiusa comple­tamente. I “meriti” di questa lotta a tutto a campo si trasformano in “colpe” dopo l’avvento di Barack Obama al­la Casa Bianca. Il giorno del giura­mento Cheney è al Campidoglio su una sedia a rotelle, messo fuori gio­co da un inatteso colpo della strega. Un’immagine che sembra se­gnare il crepuscolo, al punto che il Senato del Wyoming vota una riso­luzione che augura all’uomo politi­co una felice vecchiaia, dove, “ab­bandonati i fardelli pesanti, possa dedicarsi alla pesca e alla scrittura delle sue memorie”. Oppure alla caccia, attento a non ripetere il biz­zarro incidente che nel 2006 lo por­ta ad impallinare, per errore, un av­vocato. Un incidente miniera per battute. Obama lo prende in giro af­fermando che Cheney potrebbe in­titolare le sue memorie “Come spa­rare ad un amico e interrogare le persone”. Ma chi pensa ad un ritiro defini­tivo prende un abbaglio. Darth Va­der non ci pensa due volte, a scen­dere nell’arena. […] Un assal­to frontale alle scelte democratiche, strappando applausi tra i demotiva­ti repubblicani: “Mi preoccupo – afferma – quando vedo che al go­verno c’è gente più interessata a proteggere i diritti di un terrorista di Al Qaeda che la sicurezza del po­polo americano” Non esclude che possa verificarsi un altro attentato devastante. Poi rammenta i bei tempi andati, quando erano lui e Bush a decidere» (Guido Olimpio). «A Cheney è toccato il compito più ostinato: alzare i bastioni a difesa dell’amministrazione di cui era il pensatore, difenderne le scelte e la qualità operativa, anche nelle occasioni più difficili (la gestione del dopo 11/9) e nelle più tremende (architettare dignitose motivazioni a pratiche indifendibili e a strategie dettate dalla fede pragmatica nella ragion di Stato americana: in due parole, l’underground mediorientale). Cheney adesso fa ciò che ha sempre detestato: spiegare. Di fronte ai dubbi, alle elucubrazioni etiche, alle valutazioni comparative e al rispetto della maturità del cittadino esposti da Obama, Cheney usa argomenti rocciosi ma espliciti, per come risuonano di esperienza e buona volontà nell’intenzione di salvare la pelle al Paese e ai suoi figli. John Wayne contro Will Smith» (Stefano Pistolini). «Dopo l’uscita di scena di George W. Bush, […] era stato il primo dei repubblicani a cominciare il tiro a bersaglio contro Barack Obama, pretendendo addirittura le scuse per le sue critiche all’America dell’èra Bush. Sempre lui è stato, però, il primo a congratularsi col presidente per la morte di Osama Bin Laden e l’uccisione del suo erede Anwar Al Awlaki» (Aquaro). Nel maggio 2016, dopo non poche esitazioni, Cheney dichiarò il proprio sostegno ufficiale a Donald Trump in vista delle elezioni presidenziali, ma durante la campagna elettorale non nascose la propria freddezza nei suoi confronti, e dopo il suo insediamento ne ha spesso criticato l’operato • Nel 2018 la parabola umana e politica di Cheney è divenuta il soggetto del film Vice – L’uomo nell’ombra di Adam McKay, in cui l’ex vicepresidente è interpretato da Christian Bale. «Il regista lo dipinge come il male assoluto, imputandogli Guantánamo, le extraordinary rendition, perfino l’Isis. Perfettamente in linea con la tesi del film, l’attore Christian Bale ha ringraziato Satana “per l’ispirazione”» (Mariarosa Mancuso) • Nel 2011 Cheney ha dato alle stampe l’autobiografia In My Time (Simon & Schuster), in cui rivendica ogni scelta compiuta durante il suo mandato alla vicepresidenza, senza lesinare critiche ad altri esponenti della medesima amministrazione. «Difende “le dure tecniche di interrogazione” come il waterboarding, rifiutando di considerarle tortura. Si compiace che Obama non abbia chiuso la prigione di Guantánamo (come promesso). E si dipinge falco anche durante il secondo mandato, quando Bush gli preferì figure più diplomatiche come Condoleezza Rice. […] Certo il senso di isolamento degli ultimi tempi non ha addolcito i giudizi. “Il direttore della Cia Tenet fu sleale dimettendosi nel 2004, quando le cose si facevano dure”. Cheney racconta di aver gestito l’emergenza immediata dell’11 settembre da un bunker. Parla della sua lettera segreta di dimissioni del 2001, da usare se la salute lo avesse abbandonato. E delle dimissioni del segretario di Stato Colin Powell, per cui si spese parecchio, definendole “la cosa migliore”. Non che sulla sostituta sia più gentile. La Rice fu “ingenua” sul nucleare nordcoreano. Veleno sulla patacca dell’uranio del Niger, quelle “16 parole” del discorso al Congresso nel 2003 con le quali Bush annunciò le prove che Saddam Hussein aveva cercato di comprare materia prima per armi nucleari. Quando venne fuori che era una bufala, Condi voleva che Bush chiedesse pubblicamente scusa, Cheney era contro, e l’ebbe vinta. Incassando, a suo dire, il pentimento della rivale: “Venne nel mio ufficio… mi disse in lacrime che avevo avuto ragione io”. […] Le pagine più dolci sono alla fine, quando […] parla dell’operazione al cuore del 2010. Dopo, rimase “per settimane in uno stato di incoscienza”, con un sogno ricorrente: “Vivevo in una villa in Italia, camminavo a piccoli passi per prendere il caffè e i giornali”» (Michele Farina) • Aspre critiche, relative alla sua gestione della vicepresidenza, gli mosse l’ex presidente George H.W. Bush nella sua biografia autorizzata Destiny and Power (Random House, 2015), scritta da Jon Meacham. «A Cheney riserva un’accusa particolarmente grave, quella di avere costruito un sistema di potere separato, una presidenza dentro la presidenza, un circolo decisionale sottratto al controllo della Casa Bianca. Con conseguenze disastrose soprattutto in politica estera. […] Dice, fra l’altro, che sotto Bush 43 [suo figlio George W. Bush, così detto in quanto 43° presidente degli Stati Uniti – ndr] “lui divenne molto diverso dal Dick Cheney con cui avevo lavorato io: divenne un oltranzista, un falco, uno di quelli che cercano lo scontro su tutto, e volle usare la forza per imporre la nostra visione al Medio Oriente”» (Federico Rampini) • Assai deteriorato anche il rapporto con George W. Bush. «Bush racconta che il rapporto con Dick Cheney è talmente “cordiale” che i due non si vedono mai; ci sono gli strascichi del noto litigio su Scooter Libby, il capo dello staff di Cheney condannato da un tribunale e al quale Bush non ha concesso la grazia presidenziale, “un nostro soldato ferito che abbiamo lasciato a terra”, nelle parole dell’ex vicepresidente» (Ferraresi) • Sposato dal 1964 con la sua fidanzata delle superiori, Lynne Vincent, da sempre al suo fianco anche in politica; due figlie: Liz (1966), deputata repubblicana per il Wyoming dal 2017, e Mary (1969), anch’essa impegnata da tempo nel Partito repubblicano e «nota al grande pubblico per la scelta di dichiarare la sua omosessualità, che ha portato il conservatorissimo papà a dirsi "non contrario" ai matrimoni gay» (Aquaro) • Cardiopatico dal 1978, dopo cinque infarti e numerosi interventi chirurgici nel 2012 si è sottoposto a un trapianto di cuore • Notoriamente appassionato di pesca e di caccia. «Quando nel 2006 il vice presidente Dick Cheney è stato coinvolto in quello che è passato alla storia come “incidente di caccia” e ha sparato nel petto a Harry Whittington, tutti i reporter si sono fiondati alla conferenza stampa della Casa Bianca. Secondo me, avrebbero dovuto essere sul luogo dell’incidente a raccogliere indizi. Si sarebbero accorti che le cose non quadravano» (Renata Adler) • «Sotto Bush il vecchio, l’allora ministro della Difesa Cheney si allineò ai moderati. Ma i suoi trascorsi al Congresso non lasciavano dubbi: aveva votato contro il bando delle armi chimiche, contro il porto d’armi, contro le sanzioni a carico dell’apartheid in Sudafrica e contro il preavviso per i licenziamenti. Il vicepresidente era ed è rimasto un conservatore, ed è uscito allo scoperto, conclude […] Kenneth Walsh, un esperto di Casa Bianca, […] perché ha trovato in Bush il giovane un terreno fertile» (Ennio Caretto). «C’è chi ha sostenuto che è Dick Cheney il vero presidente, e Bush solo il prestanome, la controfigura da mandare davanti ai riflettori. […] Ci sono politici dallo stile estroverso, che si affermano facendo spettacolo, mostrando al mondo quanto sono brillanti. Cheney sembra invece di quelli che, al contrario, si affidano al restare in ombra, anche quando sono loro a muovere i fili. […] Ricordano che, quando era capo di gabinetto alla Casa Bianca di Gerald Ford, il nome in codice assegnatogli dal Secret Service era “Backseat”, “quello che siede dietro”, in posizione defilata. […] Qualcuno l’ha definito “l’uomo con un potente anticarisma”. […] Proverbiali sono i suoi lunghi silenzi, anche nelle riunioni coi più stretti collaboratori. Ha fatto del grigiore una corazza. In altre latitudini e altre epoche sarebbe stato il prototipo del grande apparatchik comunista, o del cardinale da Curia. Non fa battute, non racconta barzellette, non si sforza di apparire simpatico e gioviale. E nemmeno si dà da fare per apparire geniale» (Ginzberg). «Lo hanno chiamato Darth Vader come il cattivo di Star Wars. E lui non si è offeso. Anzi, quel soprannome – ha detto – mi ha reso più umano. Lo hanno accusato di aver incarnato il “lato oscuro” della strategia anti-terrore dell’epoca Bush. E lui non l’ha rinnegato: “Minacce dirette richiedono azioni decise, con tutta l’urgenza che il pericolo sollecita”. Risposte segrete, attività clandestine, operazioni con licenza di uccidere che Dick Cheney ha architettato con il placet del suo presidente. Un assenso che è diventato qualcosa di più. Cheney era il vice, ma si è comportato da numero uno, prendendosi tutto lo spazio concessogli da occasioni e circostanze. Quasi un presidente ombra, che ha amato come una spia il mondo delle tenebre, dove tutto è permesso per difendere confini e interessi nazionali. Magari non nella legge ma per la legge, come piace ripetere ai vecchi guerrieri della Guerra fredda» (Olimpio). «Va detto che Cheney non ha mai mosso un dito per cancellare l’alone leggendario che l’ha accompagnato. Ha sempre incoraggiato le battute sul suo potere sconfinato alla Casa Bianca. […] Peter Baker ha deciso di dare tridimensionalità allo schema altrimenti appiattito sui soliti riflessi condizionati. Il suo Days of Fire è una monumentale ricostruzione della presidenza che il cronista del New York Times – ma allora al Washington Post – ha raccontato sul campo. […] “Anche nella prima parte della presidenza, quando un giovane presidente non ancora testato si affidava ai consigli del suo più esperto numero due, Cheney non era il burattinaio che i critici hanno vagheggiato. Come vicepresidente ha esercitato un’enorme influenza nel primo mandato, per diventare sempre più marginale nel corso del secondo, quando Bush cercava un modo per correggere la sua complicata presidenza”. Certamente Cheney è stato il vicepresidente più influente nella recente storia americana, ma Bush, come dice il suo amico di sempre Joe O’Neill, è sempre stato “his own man”, titolare unico delle decisioni finali, dalla gestione della guerra al terrore al rimpasto di governo del secondo mandato. È stato “his own man” quando ha rifiutato l’idea del suo secondo di sfilarsi dal carro dell’amministrazione e quando, pochi giorni prima di lasciare la Casa Bianca, si è preso la responsabilità di non concedere la grazia presidenziale a Lewis “Scooter” Libby, il capo di gabinetto di Cheney. […] La vicenda della grazia di Libby rappresenta, nella versione popolare del racconto, la fine dell’amicizia fra Bush e Cheney. Ma nel mastodontico affresco presidenziale dipinto da Baker, una scena fatta di sfumature e chiaroscuri, si scopre che i due non erano mai stati davvero amici. “Non eravamo ‘buddies’”, spiega lo stesso Cheney. Era un’alleanza perfetta, una grandiosa partnership politica, non un’affinità elettiva» (Ferraresi) • «Il nostro obiettivo era quello di abbattere Saddam Hussein. Ce l’abbiamo fatta. Il mondo è un posto migliore senza di lui».