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 2019  gennaio 29 Martedì calendario

L’assassinio del giudice Alessandrini

Milano «Difendeva la democrazia dall’eversione e dal terrorismo». Punto. Se un liceale di oggi si imbattesse nella lapide che all’angolo di viale Umbria ricorda il magistrato Emilio Alessandrini, apprenderebbe ben poco del motivo per cui Alessandrini venne assassinato. E ancora meno saprebbe degli autori della esecuzione, riassunti nell’imprecisato magma della «eversione e del terrorismo»: dove potrebbe stare dentro di tutto, dai fascisti ai servizi deviati a chissà cos’altro.
Invece il delitto che questa mattina, dopo molti anni di silenzio, verrà ricordato davanti alla lapide di viale Umbria è un delitto che ha ideatori ed esecutori ben precisi. A decretare la condanna a morte di Alessandrini furono i vertici di Prima Linea, l’organizzazione che nel mondo del terrorismo rosso contendeva a suon di esecuzioni la leadership alle Brigate Rosse. Fu un delitto figlio, a pieno titolo, della sanguinosa utopia della rivoluzione comunista, della lotta armata che nel delirio di quegli anni doveva portare alla sollevazione operaia e alla dittatura del proletariato. Omettere questa matrice del delitto Alessandrini è un falso storico che contribuisce all’ignoranza che circonda quella stagione.
Sono passati quarant’anni dal 29 gennaio 1979. Alessandrini aveva accompagnato il figlio all’asilo di via Colletta, e andava in auto verso il tribunale: senza scorta, anche se la sua foto era stata trovata nel covo di via Negroli dove poco tempo prima era stato arrestato Corrado Alunni, il capo delle Formazioni comuniste combattenti. Lo aspettano in cinque, hanno trovato l’indirizzo di Alessandrini sull’elenco telefonico, poi hanno individuato l’auto grazie al contrassegno per il parcheggio del tribunale. Tutto molto facile, troppo facile.
A guidare il commando c’erano Marco Donat Cattin, figlio di un ministro democristiano, e Sergio Segio (nel tondo), capo della colonna milanese di Prima linea. Anni dopo, Segio cercherà di spiegare che Alessandrini aveva pagato con la vita il suo impegno per leggi più efficienti, per una magistratura al passo con i tempi. Ma forse la spiegazione più sincera la diede a botta calda, appena dopo l’arresto, uno dei cinque del commando, Umberto Mazzola: una spiegazione disarmante per la superficialità, la faciloneria con cui si decretava la condanna a morte di obiettivi che non si conoscevano. «Non so chi per primo ebbe l’idea di colpirlo. Si voleva colpire la magistratura ma nella scelta di Alessandrini non giocò alcun ruolo la sua specifica attività... Sapevamo che era un magistrato democratico ma questo non toglieva che fosse un magistrato».
Oggi Sergio Segio va in televisione, partecipa ai cortei no Expo, scende in campo affianco a Sea Watch. Quando, dopo nove anni, ottenne la semilibertà, il figlio di Alessandrini disse: «Non mi oppongo, credo nel recupero. Vorrei solo che tenesse un basso profilo». Non è stato accontentato.LF