Libero, 28 gennaio 2019
Le parole alla moda usate in modo scorretto
Il conformismo della lingua riduce la percezione del significato dei singoli termini. Quando si parla come tutti, ci si impantana in parole tanto inflazionate quanto poco comprese. Ormai qualunque sensazione forte, dal torrentismo a un sorpasso sulla Serravalle è paragonata a una scarica di adrenalina, meglio ancora a una “botta di adrenalina”. Spesso si sentono frasi come: «Il successo? Per me è adrenalina pura». «Non c’è niente come giocare a calcetto per farmi salire l’adrenalina». Sbagliato. Impreciso, perlomeno. Perché l’adrenalina (e basterebbe guardare su un’enciclopedia medica o più banalmente su wikipedia) è un neurormone, un neurotrasmettitore la cui azione è collegata non alla piacevolezza, ma alla paura e alla necessità conseguente, istintiva, addirittura primordiale, di mettersi in fuga. Per esempio, una sera tardi stai tornando a casa a piedi dal cinema e da dietro un cespuglio salta fuori un energumeno armato di piccone. È lì che scorre l’adrenalina! Ti metti a correre come un matto, riscontrando in te stesso una forza muscolare che nemmeno pensavi di avere. Il giorno dopo, in ufficio, potrai a ragione raccontare ai tuoi colleghi che hai sperimentato una botta di adrenalina. Non se sei andato a pomiciare su una giostra. Quella al limite era dopamina. Passiamo a un’altra, usata ormai fino alla nausea: algoritmo. Ormai qualunque cosa è merito o colpa dell’algoritmo. Nelle interminabili e oziose dissertazioni in rete, sui social, il termine è usato “a schiovere”.
PROCEDIMENTO LOGICO
Siamo in piena sindrome da algoritmo. C’è sempre qualcuno che ti mette in guardia: attento all’algoritmo, anzi agli algoritmi: ti spiano. Vero fino a un certo punto. L’algoritmo di per sé non è cattivo, anzi, è cosa buona e giusta. È semplicemente un procedimento logico che consente di compiere una determinata azione attraverso una serie minima di passaggi, nella matematica e nell’informatica come nella vita quotidiana. Anche per farci gli spaghetti alle vongole utilizziamo un algoritmo, cioè una serie di passi semplici e fondamentali, come far bollire l’acqua, preparare il sugo, buttare la pasta eccetera. È il modo più semplice e diretto e logico per fare qualcosa? Allora è un algoritmo.Non un homunculus che ti scruta da dentro una macchina (tipica paranoia grillina), semmai un sistema di calcoli che, statisticamente, stabilisce quali sono le presunte preferenze di chi usa un computer. Per capirne meglio, si può leggere L’algoritmo definitivo di Pedro Domingos (Bollati Boringhieri) oppure, di Dominique Cardon, Che cosa sognano gli algoritmi (Mondadori). Una terza parola? Resilienza. Ormai la resilienza è ovunque, e ha sostituito la cara e vecchia Resistenza, alla quale ci avevano abituato se non altro i libri di storia. La Francia reagisce agli attacchi terroristici? È resiliente. Hai 104 anni ma guarisci dall’influenza? Sei un anziano davvero resiliente. Il tipo dell’altra sera la picconata te la dà veramente, ma tu sopravvivi, ti rialzi e gli spacchi la faccia? Bravo, sei stato resiliente. La moglie ti ha messo le corna, ma tu anziché disperarti parti per un fine settimana con una caraibica di vent’anni più giovane? Complimenti per la resilienza. In Sicilia si sono persino inventati il vino Resilience. La resilienza è un concetto della fisica: riguarda la capacità di un materiale di resistere a un urto senza spezzarsi. Ha anche a che fare con l’elasticità, nel caso in cui quell’oggetto torni allo stato iniziale. Di lì, il termine è stato “sdoganato” (a proposito!) in una serie di ambiti, dall’ecologia, alla biologia, alla psicologia. Per non usare il concetto a vanvera è suggerita la lettura, oltre che di un manuale di fisica delle medie, di un paio di libri di Boris Cyrulnik da La vita dopo Auschwitz (Mondadori), a I brutti anatroccoli (Frassinelli).
IMPRECISIONI
Sempre in campo psicologico, abbiamo empatia, qualità attribuita a chiunque mostri interesse verso il prossimo, come se potesse sentirne gli stati d’animo, quando invece si limita a comprenderli. Altrimenti si dovrebbe usare “simpatia” o “compassione”, quest’ultima ormai poco di moda. Un altro lemma pronunciato miliardi di volte al giorno è migrante. Chi dice migrante è considerato una persona migliore di chi dice immigrato. Eppure grammaticalmente ha ragione il secondo, se la persona ha varcato i confini nazionali del paese che lo riceve e si è arrestato. Migrante è un sostantivo derivato dal participio presente del termine “migrare”. Ma migrante è colui che è “emigrato” dal paese d’origine e non si è ancora fermato da nessuna parte. Se decide di fermarsi, è tecnicamente un immigrato. Infine, una parola strausata nel curriculum vitae di migliaia di giovani è motivato. L’accezione originaria è semplice: ciò che ha motivo di essere. Quella comune assume invece una connotazione di entusiasmo, passione, voglia di fare (“Sono talmente motivato che spaccherei le montagne”). Ma resta generica, anche perché qualunque datore di lavoro dà per scontato di assumere una persona che abbia voglia di lavorare. Una dritta che vi darebbe un consulente del ramo? Evitatela.