il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2019
Storie di ex parlamentari caduti in disgrazia
Lo sconforto invece che la carriera, il dirupo al posto dell’ambizione, dolore più che piacere. “Non voglio mettere più piede qui”, ha detto ad aprile scorso Giuseppe Vacciano chiudendo l’ultimo scatolone nell’ultima ora di prigionia. Per questo peone di Latina, un bravo e onesto impiegato della Banca d’Italia promosso senatore dal movimento di Grillo, il Parlamento si è rivelato carcere, luogo insalubre, terra non da conquistare ma da fuggire. Chiese di andare via appena ruppe con i Cinquestelle (ha onorato il divorzio restituendo sempre la metà dell’indennità, osservando con scrupolo la disciplina del movimento pure da fuoriuscito) e vergò a ripetizione le dimissioni. Il 15 febbraio 2015, poi il 16 settembre, il 13 luglio dell’anno successivo, il 25 gennaio dell’altro anno ancora e il 20 aprile dell’anno scorso. “Non c’è stato niente da fare, le dimissioni sono state sempre respinte”. Grazie a Dio ora è salvo: da politico è tornato uomo e uomo rimarrà.
L’élite, o meglio la “casta”, meta irraggiungibile e dorata dell’Italia potente e affluente o soltanto benissimo agganciata e sistemata nelle sale affrescate del Parlamento, diviene, per certe persone, Alcatraz o quasi. Il luogo fisico dove non l’ambizione ma la mortificazione vince. Il Palazzo del diritto diviene così l’adunata in cui tutti i rovesci si danno appuntamento. Sono vite capovolte, storie capovolte e anche sentimenti irriconoscibili dalla maggioranza degli eletti, di coloro che saliti in groppa al cavallo non ne vogliono scendere più. “Fine mandato? Non mi interessa”, disse Ignazio La Russa anni fa. “Io voglio restare, non voglio che finisca mai”. E così per lui è stato, il suo corpo oramai è trasfigurato in marmo, come quello che arreda il Transatlantico.
Ma lei? Doveva essere il trampolino di lancio per una vita che ha sognato e praticato sempre di corsa. Lei, la canoista pluridecorata, la campionessa applaudita e celebrata, si chiama Josefa Idem. Caricata nel vagone del Pd, poi da Matteo Renzi assisa al trono di ministra dello Sport, è calata, nel giro di un lancio dell’agenzia Ansa che riferiva dell’Ici non pagata per un immobile di sua proprietà, nel girone dei reprobi, immolata sull’altare dell’onestà. Idem si è trovata, per via di questa sanzione amministrativa, allineata ai cattivi della Terra. “Sono stata vittima di ciò che volevo cambiare”.
Adesso che vive a Ravenna può spulciare l’almanacco dei fregati. Un intero alfabeto. Per esempio alla lettera s, Gerry Scotti. Era il 1997 e venne eletto con i socialisti: “È stata una brutta pagina. Non sono riuscito a dire nulla e a fare nulla. In quattro anni mi hanno fatto venire la nausea”. I giochi a premi, i quiz di Mediaset: è tornato da dove era venuto, sorprendentemente rinato, anche con una marcia in più. È sempre insondabile l’animo umano. Perché, per esempio, Franco Califano nel 1992 abbia deciso di candidarsi con i socialdemocratici, il partito (chi ha cinquant’anni ricorderà) esempio del trasformismo, del piccolo cabotaggio, rappresentazione di una Italietta ministeriale, affamata e clientelare, resta un mistero. Lui, trasgressivo dal naso in giù, cantante e poeta sempre fuori misura, per via del suo talento ancora ricordato, raccolse 198 preferenze (allora il voto si esprimeva anche con multiple preferenze) e una figuraccia. Lo fece per soldi? In tutti i modi a Montecitorio non entrò. E col senno di poi di sicuro si è trattato di una fortuna, il Califfo aveva dimenticato che il grande Trilussa, nominato senatore a vita, non varcò mai il portone di palazzo Madama (morì venti giorni dopo la nomina, il 21 dicembre 1950) e il maestro Arturo Toscanini vergò, un’ora dopo averlo ricevuto, il rifiuto ad accettare lo scranno di senatore.
Sapeva forse a quel che sarebbe accaduto. Alla disgrazia di essere eletto o nominato e non alla gioia, al dispiacere più che al piacere. “Lei si candiderebbe con un partito del quale non condivide nulla?”, chiese Maria Amati al momento di tornarsene a fare il medico a Vasto, dopo una legislatura vissuta nel clima nero della lite continua, della sinistra andata in frantumi, degli odi e dei rancori che hanno poi portato il Pd alle cifre che oggi conosciamo. E Franco Palermo di corsa è tornato a Trento a insegnare diritto privato. “Chi vuole conoscere la mia idea o un consiglio sa dove trovarmi”. Come la sincera riflessione dell’ex deputata Grazia Rocchi: “Mi sento più utile dov’ero prima”.
Montecitorio o palazzo Madama, e perfino le poltrone ministeriali, sanno trasformarsi in gabbie, e i giochi di palazzo in nevrasteniche sedute di resistenza. L’impegno pubblico può avere riflessi psicologici negativi e produrre patologie anche alla salute. Per fare politica ci vuole fisico e una coscienza con un pelo lungo così. Bisogna essere abituati a dire e a contraddire. Un capolavoro di queste ore sono gli esiti della querela fatta per metà da Matteo Salvini nella querelle leghista dei 49 milioni di euro spariti dalle casse leghista. Ebbene il segretario pro tempore ha deciso di puntare il dito contro il tesoriere Belsito ma non contro il suo dante causa Umberto Bossi e il di lui figlio Renzo, che si è indebitamente appropriato di beni altrui. Risultato: Belsito condannato e i due Bossi assolti.
La politica dunque non fa sempre e solo fatti ma produce anche misfatti. Chiama a sé chi non dovrebbe, lascia andare chi invece potrebbe utilmente restare. E chi guarda, con spirito primitivo e ingenuo lo spettacolo, può anche non gradire. Maria Chiara Carrozza, che è stata ministro dell’Istruzione del governo Letta, scienziata di prima fila e docente di bioingegneria industriale, già rettore del Sant’Anna di Pisa, è corsa via, fuggita proprio: “Mi sento attratta dal ritorno alla mia professione”. Una formula elegante, un linguaggio educato per esprimere più che la rinuncia a continuare, il rifiuto a condividere ciò che non si sa o non si può.
Correre, correre a gambe levate. In queste ore Michela Marzano pubblica l’ultimo suo libro, “Idda”. Insegna alla Sorbona a Parigi, scrive su Repubblica, ha una vita piena e felice, macchiata, diciamo così, dalla permanenza in Parlamento nella scorsa legislatura: “Non posso dire che non sia stata utile quell’esperienza, ma che sollievo non esserci più nel tempo in cui le competenze sono dileggiate, giubilate. Avanza solo chi non sa far niente”
E Franca Rame, quando tornò nella sua casa di Milano, sedotta da Di Pietro e poi abbandonata sugli scranni di Palazzo Madama, spiegò: “Al Senato non si usa ascoltare chi interviene. La maggior parte dei presenti chiacchiera, telefona su due e anche tre cellulari, sbriga la corrispondenza. Voglio uscire da lì. Tornare a dire ciò che penso”.
Uscire, e magari anche essere felice di trovare un taxi ad aspettarla. “Non avendo un impiego subordinato, ho dovuto reinventarmi. Ho preso la licenza. Faccio la tassista, è un mestiere affascinante. Chi pensa che la mia nuova vita sia piena di dolore rispetto alla precedente, sbaglia di grosso. Sono felicissima, totalmente realizzata”. Lei, Paola Bragantini, aveva da deputata uno stipendio che forse le permetteva l’autista. Oggi è lei al volante.
La vita, misteriosa e insondabile, porta alcuni a rinunciare alle prebende che tanti altri aspirerebbero a far proprie, e conduce qualche altro che in quel mondo d’oro ha vissuto, alla condizione di clochard. Maurizio Grassano, leghista di Alessandria, deputato e prima ancora presidente del consiglio comunale di Alessandria, non ha visto solo la carriera arrestarsi, per merito di una condanna definitiva a due anni e mezzo, scontata ai domiciliari. “Pian piano le cose sono andate peggio. Il lavoro mi è mancato, il comune di Alessandria si è costituito parte civile e ha chiesto un risarcimento danni enorme. Mi hanno ipotecato l’auto, poi la casa. Ho rotto con mia moglie, i rapporti si sono guastati anche con mio figlio. Disoccupato, giro a piedi ma oggi, proprio oggi, l’ufficiale giudiziario mi notificherà lo sfratto perché l’abitazione è stata venduta all’asta. Mangio alla Caritas. Mi aspetta la panchina, se ne resta una ancora libera”.