la Repubblica, 28 gennaio 2019
Le donne di mafia allevano colletti bianchi
L’ordine arriva dalle carceri. La nuova parola d’ordine delle mafie 2.0 è “esfiltrare”, tenere fuori dall’organizzazione militare le prime e le seconde generazioni. Figli e nipoti dei boss non devono rischiare di finire in cella perché alla lunga il regime del 41 bis, nonostante qualche falla di troppo, ha prodotto l’effetto per il quale era stato concepito dopo le stragi del ‘92: interrompere la linea gerarchica dei clan. Oggi chi è al carcere duro ha perso tutto il suo potere, non è più in grado di esercitare il suo ruolo. Da qui il nuovo indirizzo: figli e nipoti devono studiare, imparare le lingue, diventare professionisti, magari andare all’estero o comunque essere disponibili ad abbandonare il territorio marcato dalla famiglia. Il loro ruolo sarà salvaguardare e, se possibile, investire ulteriormente i patrimoni accumulati con il sangue e i traffici. Non bastano più i prestanome, che l’apparato inquirente all’avanguardia individua facilmente. A mafia, camorra, ’ndrangheta servono broker, commercialisti, informatici, dirigenti d’azienda, avvocati, e vogliono farli crescere a casa. Come Dimitri Antonio Di Stefano, avvocato di Reggio Calabria e figlio di Paolo, defunto capoclan di Archi, ritenuto il rampollo che ha modernizzato la ’ndrangheta, o come Lorenza Guttadauro, nipote di Matteo Messina Denaro, avvocata anche lei, pronta ad assumere la difesa e a creare falsi alibi al marito Girolamo Bellomo, al fratello Giuseppe Guttadauro e alla blasonata zia Patrizia Messina Denaro, in cima alla top ten delle donne boss più potenti d’Italia.
Eccolo il nuovo ruolo delle donne dei clan, passate da vestali a educatrici del sapere mafioso, da postine a cassiere del racket, da prestanome a vicarie dei loro uomini in carcere. «Oggi – dice Vincenzo Nicolì, dirigente della prima divisione del Servizio centrale operativo della Polizia – le donne di mafia si fanno garanti dell’esfiltrazione dei figli dalla conduzione militare dei clan. È meglio studiare. Le mafie hanno superato la fase dell’infiltrazione nel tessuto della società, sono a quella dell’integrazione, stanno producendo una classe dirigente in grado di decidere da sola investimenti e movimenti nei mercati leciti. Più ti allontani da chi spara e traffica droga più esci dai riflettori. Prima erano a caccia di killer, ora hanno bisogno chi è in grado di maneggiare bitcoin. I loro figli devono sapere cliccare sul mouse e non più sul grilletto». Ed è su questo nuovo terreno, dunque, che si sposta anche l’azione di contrasto, con analisi e strumenti all’avanguardia che saranno al centro della giornata dedicata all’intero mondo dell’investigazione 2.0 che si terrà domani mattina alla Scuola superiore di polizia alla presenza del capo Franco Gabrielli.
Le donne, dunque, sempre più numerose nelle vesti di sostitute degli uomini in carcere, temute e rispettate con tanto di potere decisionale. Come Annamaria Licciardi, del clan camorristico di Secondigliano, o Patrizia Messina Denaro, o le sorelle ’ndranghetiste Angela e Teresa Strangio, che hanno assunto posizioni di vertice, ma anche più defilate, chiamate anche ad adottare una sorta di cautela estetica: niente più oro e visone fino ai piedi, che sfoggiavano le mogli dei fratelli Graviano nelle aule bunker di mezza Italia per salutare i mariti con un bacio all’indirizzo delle gabbie. E niente più atteggiamenti di sprezzante superiorità. Perché quando ad essere colpite dalle indagini sono anche loro, la catena di comando rischia di saltare definitivamente.
Non sono certo più i tempi di Pupetta Maresca, l’avvenente moglie del boss Pasquale Simonetti a che negli anni Ottanta, in piena guerra di camorra, osò convocare una conferenza stampa per minacciare Raffaele Cutolo. E neanche quelli di Anna Mazza, la vedova nera della camorra, moglie di Gennaro Moccia che dopo aver preso in mano le redini del clan riuscì a ramificarlo fuori dalla Campania. Oggi le vedove nere sono quelle delle cosche di Vibo Valentia che interpretano in pieno il ruolo di trasmettere ai figli ancora piccoli il codice culturale mafioso, di inculcare loro che i padri in galera sono vittime dello Stato cattivo, di farsi garanti all’esterno della reputazione del cognome che portano, di incitare i figli alla vendetta. Donne sempre più consapevoli di un ruolo che amano detenere, che sia nel traffico di stupefacenti o nell’amministrazione finanziaria di un patrimonio, come quelle del clan Fasciani di Ostia, regine degli stabilimenti balneari, dei ristoranti e dell’usura di tutto il litorale. Ma anche quelle che, in tante, o per vendetta o per salvare se stesse e i figli, hanno scelto la strada della collaborazione con la giustizia, soprattutto in Calabria: c’è chi ci ha rimesso la vita come Lea Garofalo o Maria Teresa Cacciola o chi, come Edyta Kopaczynska, unica polacca ad essere condannata per mafia, si è affrancata così dal destino che aveva sposato insieme al boss di Cosenza Michele Bruni. Al tempo stesso punto di forza delle mafie ma anche anello debole perché dietro la cattura di ogni latitante c’è sempre una donna.