la Repubblica, 28 gennaio 2019
La scommessa della nuova Etiopia
ADDIS ABEBA La vera Etiopia la si scopre lasciando la capitale, i suoi grattacieli in costruzione, i suoi ingorghi e il suo smog. L’Onu ha la maggiore sede africana a Addis Abeba, ma se i funzionari restano lì hanno una visione parziale. Prendere un volo fino a Bahir Dar, spingersi su strade sterrate fino alla regione di Gumuz, uno dei vasti altipiani etiopi, offre una prospettiva diversa. Una puntata nelle zone rurali ridimensiona un po’ l’entusiasmo per il “miracolo etiope”, pubblicizzato nel mondo dal premier-celebrity, il 42enne Abiy Ahmed reduce da una recente tournée internazionale.
Un’ora di strada asfaltata da Bahir Dar, due di strada sterrata (impraticabile nella stagione delle piogge), un’ora finale di arrampicata a piedi, e si raggiunge un polo estremo, l’opposto di Addis Abeba. Lungo il percorso incrocio bambine e bambini che trasportano sulle spalle taniche d’acqua o canne da zucchero o cesti pieni di cipolle, camminando per tragitti lunghissimi. Altri bambini lavorano nei campi coi genitori, la schiena piegata in due. I contadini usano aratri di legno come mille anni fa; non hanno mai visto un trattore. Carretti trainati a mano, al massimo da un asinello. Giovani pastori sorvegliano mandrie di mucche “indiane” (la razza con la gobba), magre quanto i loro padroni. Arrivo in cima a una collina abitata da etnìe tribali di origine sudanese, e i segni di una povertà estrema sono evidenti.
Non la fame, perché la terra è fertile e i contadini non mancano di cibo. Però nella folla di bambini che accorrono a osservare i visitatori si notano delle pance gonfie (infezioni da vermi intestinali, mi dice un esperto), e occhi malati.
La distanza che abbiamo percorso è una barriera tremenda per chi ha bisogno di raggiungere un ambulatorio; o una scuola. Né si trovano insegnanti disposti a un simile pendolarismo per il magro stipendio statale. Perché i bambini non rimangano analfabeti un vescovo locale ha addestrato due ragazze del posto, uniche e rudimentali maestre per tutte le classi: centinaia di bambini di età diverse riuniti in un grande hangar. Il vescovo ha chiesto aiuto al direttore di un ong americana, Gabriele Delmonaco di “A Chance In Life”, che organizza questo viaggio col progetto di portare una scuola vera fino a questo luogo remoto. La gente di qui – e in molte altre regioni rurali – abita ancora nei tradizionali tucùl: muri di terra e sterco, tetti di paglia. Il bestiame dorme insieme agli umani.
Entrando la prima impressione è di una camera a gas: il fuoco è perennemente acceso, per scaldarsi di notte e anche bruciare erbe aromatiche che scacciano zanzare da malaria, zecche e altri insetti micidiali. Gli incendi sono frequenti; anche le malattie polmonari, per chi respira tanto fumo. Il regalo che i bimbi chiedono più spesso, è una penna biro.
Nella cittadina di Bahir Dar incontro un medico inglese, David, venuto a lavorare come volontario nel policlinico “universitario” aperto da poco – il secondo ospedale in un’area che ha 15 milioni di abitanti – ma ancora sprovvisto delle attrezzature più essenziali. È un ortopedico ma gli capita di dover operare feriti da armi da fuoco, arrivano da zone di combattimento, dove le faide etniche non sono sopite.
L’Etiopia ha una buona fama di questi tempi perché è un’oasi di stabilità circondata da vicini turbolenti o repressivi: Sudan, Eritrea, Somalia. Ma il modello etiopico, come mi spiega un esule eritreo consulente dell’Onu, poggia su un equilibrio fragile. È una federazione etnica dove i ricordi delle oppressioni reciproche sono ancora freschi, ferite aperte.
Storicamente la minoranza Tigray ha controllato il potere e le armi, gli Ahmari dominano l’economia, mentre la maggioranza Oromo solo di recente ha conquistato il governo con Abiy. Ci sono altri 80 gruppi etnici e almeno quattro comunità religiose: ortodossi, musulmani, protestanti e cattolici. L’idea di Stato è ancora un’astrazione, esercito e polizie federali sono milizie dei movimenti di liberazione etnici, riconvertite di recente.
Il contesto internazionale non aiuta: la Russia “perse” l’Etiopia con la caduta del dittatore comunista Mengistu (1991); l’Occidente simpatizza con Abyi ma scommette pochi capitali su di lui; la vera contesa per l’egemonia qui è tra la Cina e l’Arabia saudita. Pechino costruisce infrastrutture; gli arabi edificano moschee e attraverso l’importazione di manodopera etiope operano una islamizzazione strisciante.
Se confrontata con la maggioranza dei Paesi subsahariani l’Etiopia è un modello avanzato per varie ragioni. Tutte precarie. È il granaio d’Africa, una vera potenza agricola col più grande patrimonio di bestiame di tutto il continente, di che sfamare i suoi 105 milioni di abitanti ed anche esportare. Ma fu teatro di carestie storiche, due delle quali contribuirono alla caduta dei due ultimi regimi (Haile Selassie, Mengistu). Quella del 1973, che fece duecentomila morti finché Selassie riuscì a nasconderla, contribuì alla nascita della “cultura degli aiuti” in Occidente, i cui errori sono stati analizzati con severità dall’economista Dambisa Moyo dello Zambia ("La carità che uccide”, Rizzoli 2011). Com’è possibile morire di fame in una nazione così fertile, con tanti laghi e fiumi? L’eccessivo sviluppo degli allevamenti ha contribuito all’erosione dei terreni. La parcellizzazione delle terre non incentiva gli investimenti in tecnologie.
L’industria agroalimentare è quasi inesistente: rara eccezione è Illycaffè che ha costruito un rapporto con contadini e imprenditori locali, la famiglia di Ali e Ahmed Legesse a Sidamo. La mancanza di infrastrutture e la politica – il prestigio dei dittatori, le contese etniche – hanno rallentato l’arrivo di aiuti quando alcune regioni erano colpite da siccità.L’altitudine di gran parte del suo territorio la protegge anche da molti flagelli tropicali-equatoriali; ma solo in parte. C’è meno malaria, febbre gialla e tifo, che in altri Paesi africani. Ma queste malattie non sono del tutto debellate. Altre sono endemiche per la mancanza di acqua potabile, le fognature a cielo aperto. Perfino i medici locali, i volontari di lungo corso, è impossibile che non si siano presi almeno una volta malaria o febbre tifoide o dissenteria. La mortalità infantile elevata (che riduce la longevità media poco sopra i cinquant’anni) si spiega con l’assenza di un’igiene basilare.
L’acqua pulita resta un bene irraggiungibile in campagna. «Hai un bell’insegnare che bisogna lavarsi le mani – mi dice la suora indiana che dirige un ambulatorio nella zona Gurage – ma scavare un pozzo artesiano costa 70.000 euro, l’acqua per lavarsi qui non c’è».
Risorsa preziosa, l’acqua non serve solo per bere e lavarsi: è la più grande fonte d’energia. La Salini-Impregilo sta costruendo la quarta grande diga nazionale, e sta ultimando quella che viene definita la Diga della Rinascita.
Egitto e Sudan seguono con preoccupazione questi progetti con cui l’Etiopia controlla a monte il flusso del Nilo Azzurro. L’astuto Abiy è andato al Cairo a garantire che esporterà energia anche ai Paesi vicini. Eppure l’elettricità non basta nemmeno all’Etiopia: i blackout sono continui.
La dottoressa tedesca che da trent’anni dirige l’ospedale Attat, a Welkite nella regione dei Gurage, confessa qual è il sogno della sua vita: «Poter lasciare tutto in mano a loro, a medici e personale etiope, senza più bisogno di una supervisione o di volontari stranieri». Ma proprio il personale medico è un serbatoio di talenti apprezzati all’estero, che vanno ad aumentare i ranghi della diaspora. C’è una singolare triangolazione con l’India: molti medici indiani emigrano in America e in Inghilterra, gli ospedali di Mumbai, Delhi e Bangalore ora reclutano etiopi. Alla mia partenza, l’aeroporto internazionale di Addis Abeba mi consegna un’ultima immagine di questo Paese: il terminal è invaso da cinesi.
Dambisa Moyo sostiene che dagli anni Sessanta ogni decennio ha visto una nuova “teoria” su come innescare uno sviluppo durevole dell’Africa.
Stiamo vivendo nel decennio della teoria cinese. Finirà meglio delle precedenti? Non è una domanda retorica né ironica. Avendoli visti al lavoro per asfaltare le strade verso Awassa, in una regione del caffè, ho rivalutato l’importanza dei loro investimenti: non sono solo predatori; anche se nella popolazione locale cresce la diffidenza.
Sul volo da Addis, la mia vicina di sedile è diretta a San Francisco. È un’infermiera etiope qualificata, assiste chirurghi in sala operatoria. Ha lasciato il suo Paese sei anni fa: assunta dal policlinico di Stanford nella Silicon Valley.