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 2019  gennaio 28 Lunedì calendario

I neonati al Sud muoiono il 40% in più

Nel 1994 Al Gore, vicepresidente degli Stati Uniti, chiese a un gruppo di ricercatori se e come fosse possibile prevedere il fallimento di uno Stato e il collasso dell’ordine pubblico. Gli studiosi raccolsero una massa di dati su centinaia di Paesi e li consegnarono alla Cia, che li rese pubblici. Un professore di Harvard, Gary King, li analizzò e arrivò a una conclusione: l’indizio che permette di prevedere con più sicurezza di qualunque altro l’avvitamento di un Paese verso la condizione di «Stato fallito» è la mortalità infantile.

P iù bambini muoiono nei loro primi dodici mesi di vita, più è probabile che l’ordine pubblico andrà in pezzi e quella nazione diventi santuario di mafie, terrorismo, epidemie.

L’Italia in questo è fra i Paesi più solidi al mondo. Per fortuna, e per merito del Servizio sanitario nazionale, la mortalità infantile è fra le più basse nella cinquantina di economie principali della Terra. Non raggiunge i livelli da record dell’Islanda (0,7 per mille), o della Finlandia (1,9), ma a quota 2,8 per mille bambini nati vivi è la decima più bassa al mondo e nettamente davanti a Danimarca, Germania, Olanda, Francia o Canada. Anche attraverso la crisi economica il miglioramento non si è mai fermato e anzi dal 2005 si registra un calo di decessi dello 0,8 per mille: significa che nel 2016 si sono salvati quasi 400 bambini che dieci anni prima sarebbero stati persi. È uno dei successi più spettacolari, e poco raccontati, di un Paese che per quasi tutto il resto sembra aver perso stima di sé. In questo la serie di quattro decessi in pochi mesi in un reparto di neonatologia di Brescia sembra avere a che fare più con la fatalità e la sfortuna che con negligenze o problemi dell’ospedale stesso.

Le diseguaglianze in culla

Tutto ciò naturalmente vale per i grandi numeri. Ma è quando si guarda dentro le medie che vengono a galla sorprese meno rassicuranti. Soprattutto, viene fuori che in Italia «la disuguaglianza inizia nella culla». È il titolo di uno studio pubblicato di recente sulla rivista Pediatria da Mario De Curtis della Sapienza di Roma e da Silvia Simeoni dell’Istat.

I due ricercatori, sulla base dei dati di natalità e mortalità infantile del 2015, arrivano a una conclusione per molti aspetti sconvolgente: le probabilità di morire durante i primi dodici mesi di vita sono del 40 per cento più alte nelle regioni meridionali che nel Nord del Paese. E la vulnerabilità della popolazione immigrata ai problemi sanitari resta alta in misura abnorme: gli stranieri rappresentano l’8 per cento della popolazione, il 15 per cento delle nuove nascite (da entrambi genitori di nazionalità estera) e il 23 per cento della mortalità infantile.

Le ineguaglianze tra regioni

Lo studio di De Curtis e Simeoni è basato sul 2015, ma di recente l’Istat ha aggiornato i dati al 2016 e le differenze risultano altrettanto marcate. Forse anzi lo sono di più, visto anche che la popolazione di bambini in Italia è sempre più limitata e il Paese continua ogni anno a registrare circa 15 mila nascite in meno rispetto all’anno prima.

Il grafico in pagina mostra che la mortalità infantile in Italia varia dal 2,29 per mille a Nordest (il livello della Norvegia, quinta migliore performance al mondo) al 3,68 per mille delle Isole (il livello della Lettonia, 23esima al mondo); quanto ai figli di entrambi genitori immigrati — scrivono De Curtis e Simeoni — viaggia ancora più in alto a quota 4,5; ma è oltre l’otto per mille per i bambini nati da donne africane che arrivano dalle aree subsahariane.

I margini di miglioramento

Pure nei progressi degli ultimi decenni, lo scarto fra il Nord e il Sud dell’Italia non si è mai chiuso. Per quanto drammatico, questo dato di fatto implica però che i margini di miglioramento siano enormi e del tutto a portata di mano se semplicemente ci si ispira alle migliori pratiche nel Paese. Se nel 2016 l’Italia avesse avuto in media gli stessi livelli di mortalità infantile delle sole regioni del Nordest, le più virtuose, si sarebbero salvati 246 bambini in più fino ai dodici mesi di età e ne sarebbero rimasti in vita 177 in più solo nelle regioni meridionali. Ma è quando si proiettano questi dati su un decennio o un ventennio che ci si rende conto fino a che punto le diseguaglianze nella culla contano per la demografia di intere aree del Paese.

Le cause delle disparità

Risolvere queste disparità è tutt’altro che impossibile, quando se ne comprendono le origini. De Curtis e Simeone mostrano che gran parte della mortalità infantile oggi avviene nel primo mese di vita, spesso a causa di complicanze attorno al parto. Sono le circa cento strutture ospedaliere più piccole d’Italia, quelle che nella media assistono poco più un parto al giorno, ad essere meno attrezzate alle emergenze. Per questo avere magari meno Punti Nascita del servizio sanitario sul territorio, ma più strutturati e preparati, non permette solo di risparmiare denaro pubblico. Fa anche una differenza per qualcosa che conta molto di più.