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 2019  gennaio 28 Lunedì calendario

Cosa vuol dire "facondo"

La lingua Tedesca ha dell’energia, ma della durezza nel tempo stesso. La Inglese è faconda, ma non molto castigata. La Spagnuola è grave e maestosa. La Italiana è delicata, ma molle e spesso languida. La lingua Francese ha tutti i vantaggi di queste lingue, senza aver quasi alcuno de’ loro difetti (Novelle della repubblica letteraria per l’anno MDCCXXXXI. Pubblicate sotto gli auspizj di Sua Altezza Reale Vittorio Amedeo duca di Savoia principe del Piemonte ec., in Venezia, appresso Domenico Occhi, 1741, p. 6 sg.)

Questo giudizio sull’inglese facondo (“eloquente”) e un po’ impudico è dell’abate giansenista Pierre-Claude Goujet (1697-1767), che l’ha così formulato in un passo della sua opera maggiore: una Bibliothèque Française per generi letterari in 20 volumi (1740-1756). Altrove facondo può esprimere la facilità di parola di qualcuno, oppure sottolinearne la fluidità d’eloquio: la speditezza dei suoi discorsi, la scorrevolezza della sua prosa, la scioltezza del suo stile comunicativo.

La facondia, insomma, si situa a mezzo fra l’abilità linguistica e la prontezza e rapidità espressiva. Uno scrittore o un oratore facondo, secondo taluni dizionari dell’uso corrente (che però, così facendo, forzano il valore dell’aggettivo), darebbe anche l’impressione di oltrepassare in qualche modo la misura, di parlare o scrivere più dello stretto necessario: non si dilungherebbe più di tanto, perdendosi in inutili giri di parole, come farebbe un parlante o uno scrivente verboso o prolisso, e tantomeno raggiungerebbe gli eccessi di una persona ciarliera o chiacchierona (che parla troppo e volentieri), e tuttavia esagererebbe un tantino. Non gli riuscirebbe bene, insomma, di contenersi: il suo parlare o scrivere abbondante, ai suoi ascoltatori o ai suoi lettori, apparirebbe sovrabbondante.

Se è impossibile individuare il sinonimo perfetto dell’italiano facondo, anche indicare un vocabolo in grado di subentrargli nella gran parte dei casi è un’impresa ardua. Loquace si può accostare a facondo ma non più di tanto, perché un gesto, un silenzio o uno sguardo loquace possiamo dirli eloquenti ma non potremmo mai definirli facondi. L’aggettivo loquace, applicato a un oggetto, vuol dire infatti “chiaro”, “espressivo”, “trasparente”, “significativo di per sé” (per comprenderlo, cioè, le parole non servono), e lo stesso accade più o meno a eloquente: di un discorso (o un ragionamento) eloquente non pensiamo sia stato prodotto da un eloquente oratore, ma piuttosto da qualcuno che abbia lasciato intendere molto più di quel che ha realmente detto. Eloquente, a sua volta, risponde perciò solo in parte allo scopo, anche per altro. L’eloquenza, più che sulle abilità di una persona dalla parlantina sciolta o dallo scrivere fluente, mette l’accento sull’efficacia e la forza espressiva di chiunque parli o scriva; in questo passo, tratto dall’Adone (XIV, cccxcvi, 5-8) di Giovan Battista Marino, la facondia e l’efficacia vengono per l’appunto tenute distinte:

«Tosto che i casi lor fur manifesti,
il proprio affar manifestaro anch’essi,
e con parlar facondo ed efficace
n’impetrar [“ne ottennero pregando”] meglio e parentela e pace»

Per dirla ancora meglio: è eloquente l’oratore perfetto, che ha studiato a fondo per diventare tale, è facondo chi è eloquente per natura. In latino la situazione non è molto diversa. Per Marco Terenzio Varrone ai facundi riesce di parlare con scioltezza e gli eloquentes, al parlar sciolto, aggiungono il parlar bene («facundi sunt qui facile fantur; eloquentes qui facile et bene», De lingua latina, V, 7); il giudizio del grammatico Varrone su facundus sarà poi ripreso, in età medievale, da Isidoro di Siviglia: «Facundus dictus, qui facile fari possit» (Etymologiae, X, 95). Più facondi dei romani, per lo storico Sallustio, sarebbero però stati i greci, laddove i galli, sempre paragonati ai romani, sarebbero stati più valorosi in guerra («Cognoveram […] facundia Graecos, gloria belli Gallos ante Romanos fuisse», De Catilinae coniuratione, 53).
Sempre rispetto a facundus, la cui radice è il verbo fari (“parlare”), anche loquax (“verboso”, “garrulo”, “vanoro”) era altra cosa. Ancora Sallustio, in un frammento delle Historiae (C. Sallusti Crispi Historiarum reliquiae, edidit Bertoldus Maurenbrecher, Lipsiae, in aedibus B.G. Teubneri, II, Fragmenta, 1893, num. 43) che ci ha trasmesso Quintiliano (Institutio oratoria, IV, 2, 2), ha lasciato scritta questa frase: era “più loquace che facondo” («loquax magis quam facundus»). Il personaggio di cui si parla è un personaggio dell’età repubblicana, Marco Lollio Palicano. Di lui sappiamo, oltre a poco altro, che ricoprì la carica di tribuno romano della plebe (71 a. C). Parlava molto, ma difettava di quell’espressività naturale che l’avrebbe senz’altro agevolato, se ne fosse stato dotato, nella sua carriera politica.

Col latino facundus, circa la possibilità d’indicare parole che ne rispecchino fedelmente il significato, siamo comunque più fortunati. Un sinonimo calzante stavolta lo abbiamo: si tratta di disertus. A spiegare la differenza tra i due aggettivi, non dissimile da quella che divide eloquens da facundus, è stato Marco Tullio Cicerone. Nel De Oratore (I, 21, 94), dopo aver detto di aver conosciuto parecchi uomini “diserti” (disertos), ma nessuno eloquente (adhuc neminem), Cicerone definisce “diserto”, nelle parole di Marco Antonio, chi dimostri la capacità di parlare alla gente comune con sufficiente acutezza e trasparenza («satis acute atque dilucide»), ed eloquente chi “sappia accrescere e adornare in misura oltremodo meravigliosa e sorprendente quel che vuole, riuscendo a conservare nel cuore e nella mente tutte le fonti di qualunque cosa sia riferibile all’arte del dire” («mirabilius ac magnificentius augere posset atque ornare quae vellet, omnesque omnium rerum, quae ad dicendum pertinerent, fontes animo ac memoria continere»).