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 2019  gennaio 27 Domenica calendario

Intervista ad Alessandro Sciarroni, direttore d’orchestra dei danzatori

La foto in cui più si riconosce, pubblicata qui sopra, è stata scattata via Skype dall’artista Roberto Foddai e lo ritrae come un enigmatico uomo-aquilone, forse uscito da un cartoon, che mostra tra le mani un oggetto altrettanto misterioso, simile a un cuore (in realtà è la custodia delle ali). Con altrettanta spaesante leggerezza, Alessandro Sciarroni è planato pochi giorni fa sulla vetta della Biennale Danza che gli ha assegnato il Leone d’Oro (cerimonia il 21 giugno), primo coreografo italiano insignito del massimo riconoscimento veneziano per la capacità – recita la motivazione – di «creare in risonanza con l’arte della performance. È il direttore d’orchestra dei danzatori e di tutti coloro che, provenienti da diverse discipline, invita a partecipare ai suoi progetti. Costruisce concentrati di vita al limite dell’ossessione disponendoli attorno a eventi scelti delle nostre vite fragili e ordinarie. Mette in scena i nostri corpi quotidiani in uno spazio che amplifica l’insistenza a trovare la falla che ci addolcirà e solleverà».
Stupito? Lei ha 42 anni ed è stato preceduto da Leoni d’Oro con illustri carriere alle spalle…
«La direttrice del settore danza Marie Chouinard ha voluto abbassare fortemente l’età e scegliere artisti interdisciplinari: con me sono stati premiati due trentenni interdisciplinari (i francesi Steven Michel e Théo Mercier, Leone d’Argento ex aequo, ndr). È una piccola rivoluzione più per la danza che per la Biennale in generale. Era già accaduto nelle arti visive e nel teatro: il regista Thomas Ostermeier aveva la mia età nel 2011 quando vinse il Leone d’Oro…».
Una scelta che si presta a considerazioni su ciò che è danza contemporanea, sulla relazione con i maestri e sulla voglia di resettare la memoria…
«Forse qualcosa sta cambiando. Mi sono sempre sentito uno straniero, senza un territorio, in cerca di un porto dove approdare: ho trovato nella danza contemporanea, più che in altre discipline, un luogo accogliente che mi ha adottato. Vengo da teatro di ricerca e arti visive ma in questi territori non mi hanno mai accolto: per il teatro il mio linguaggio era troppo minimalista, per l’arte contemporanea troppo teatrale e barocco».
I suoi lavori sono distribuiti in tutto il mondo con impronta manageriale.
«Siamo cresciuti di festival in festival, cominciando a girare nei circuiti per giovani artisti italiani come Anticorpi Explo e internazionali come Aerowaves. Lisa Gilardino, mia amica da una vita, si occupa della distribuzione dei lavori ed è esattamente il contrario di un’agenzia: non essendo sostenuti dal ministero, non abbiamo l’obbligo di produrre ogni anno e possiamo cercare partner internazionali in tempi dilatati e sostenibili per tutti».
La sua biografia cita una matrice duchampiana nel suo lavoro. In che senso attinge a Duchamp?
«Come faceva Duchamp utilizzando oggetti trovati, anch’io uso il ready-made, soprattutto nella trilogia Will You Still Love Me Tomorrow? nella quale mi servo di materiali che non ho inventato: in Folk-s utilizzo i passi dello Schuhplatter, l’antica danza tirolese dei battitori di scarpe, in Untitled lavoro sulla giocoleria con acrobati professionisti, in Aurora mi concentro sul goalball paraolimpico, sport praticato da non vedenti e ipovedenti. Il mio approccio non è esattamente concettuale, ha implicazioni psicologiche, sensoriali, sentimentali».
Un punto di contatto tra «Aurora» e «Your Girl» è la disabilità, il lavoro su un corpo «altro». La danza contemporanea ha talmente frequentato il tema da tradurlo in tendenza…
«Per quello che mi riguarda, sono cresciuto da figlio unico con mia zia, la sorella di mio padre, con sindrome di Down: vivevamo insieme e lei era, per me, la sorella maggiore, benché avesse trent’anni di più. Quand’ero piccolo non era esattamente chiaro chi si prendesse cura di chi. Sono abituato a immaginare che le persone possano essere di tanti tipi diversi. Per giunta, ho fatto l’attore performer con Lenz Rifrazioni lavorando ogni giorno con artisti professionisti disabili: lì ho conosciuto Chiara Bersani (premiata con l’Ubu 2018 come miglior attrice/performer under 35, ndr), con cui ho creato il mio primo lavoro, Your Girl, un duetto tra lei e il danzatore Matteo Ramponi sul tema dell’amore. Lo presenterò a Venezia insieme all’ultimo spettacolo, Augusto. In Aurora l’aspetto per me interessante è che performer non vedenti e ipovedenti possiedano un udito molto sviluppato: il lavoro con il suono e l’occultazione della vista permette l’epifania di nuove visioni, sensazioni, maniere di esperire la realtà. Da ciò il titolo».
A proposito di titoli e sottotitoli, ne sceglie spesso di lunghissimi...
«Sono una suggestione improvvisa, come fossero creature. Nella prima parte del mio percorso ero attratto dall’idea di poter rubare titoli di canzoni, ultimamente sono più attratto da parole e nomi italiani. Augusto è il nome del clown sempre ubriaco che fa disastri, l’ho sentito in un film di Fellini e l’ho scelto come titolo del mio lavoro sulla risata».
Altra costante del suo percorso è il gesto reiterato allo sfinimento psicofisico come nei passi tirolesi di «Folk-s» o negli avvitamenti di «Chroma».
«Sono stato affascinato dagli artisti visivi anni Sessanta-Settanta, della performance art, che vedevano il corpo all’eccesso. Negli anni Duemila la situazione è molto diversa, è quasi un miracolo che lo spettatore venga a teatro. Nei miei lavori, anche quando i performer girano a oltranza sul proprio asse, non c’è mai l’idea di mostrare corpi sofferenti. Piuttosto, l’impegno a compiere qualcosa di assurdo che genera piacere. Questo mi interessa scambiare con lo spettatore».