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 2019  gennaio 27 Domenica calendario

Le lettere tra Dario Bellezza e Anna Maria Ortese

Che cos’è il «dolore dell’economia» di cui Anna Maria Ortese scrisse in una lettera indirizzata all’amico Dario Bellezza? È il suo essere perennemente sull’orlo della povertà, la drammatica quotidianità di una grande scrittrice che per tutta la vita ha dovuto fronteggiare l’ansia delle bollette, dell’affitto sempre eccessivo, delle spese mediche, della malattia della sorella. Un giorno, non sapendo come cavarsela per certi pagamenti, Anna Maria andò da Dino Buzzati e gli chiese di prestarle diecimila lire, promettendo che gliele avrebbe restituite al più presto. Si trovò di fronte a un uomo «contento» di metter mano al portafogli e di estrarne non dieci ma ventimila lire. Quando, molto tempo dopo, la Ortese tornò da Buzzati per scusarsi di non avere ancora estinto il debito, si sentì rispondere: «Quale denaro? Non mi ricordo assolutamente di questo denaro che Lei dice. Non Le ho mai dato nulla». E così la faccenda fu chiusa, con una finta dimenticanza che alleviò alla Ortese il «dolore dell’economia». 
Di «dolore dell’economia» parlano molte delle lettere che la Ortese inviò al suo amico Dario Bellezza tra gli anni Settanta e Ottanta. Quelle pubblicate da Archinto nel 2011 a cura di Adelia Battista, ma anche le dodici rimaste inedite nell’archivio del poeta.
Una strana vicenda, quella dell’archivio, felicemente finito nelle mani di un collezionista, musicologo e storico dell’arte che ama la letteratura italiana del Novecento, Giuseppe Garrera. È lui che nel 2008 ha salvato, tra l’altro, le carte private del grande francesista Giovanni Macchia quando a Porta Portese, per puro caso, si è accorto che erano state destinate ai bidoni della spazzatura dagli addetti allo sgombero dell’appartamento dello studioso: bozze, manoscritti delle sue maggiori opere, un migliaio di lettere. 
L’archivio di Bellezza, il poeta e romanziere romano morto poco più che cinquantenne nel 1996, ha una storia diversa ma altrettanto tortuosa. Alla sua morte, le scatole piene di bozze, autografi di poesie e di romanzi con varianti e progetti, quaderni di diari, appunti di interventi pubblici, fogli sparsi con testi mai pubblicati e redazioni diverse di poesie note, fotografie e molte decine di lettere finiscono in possesso di Antonio Veneziani, l’uomo che è stato vicino a Bellezza durante la malattia nella casa di Trastevere in via Agostino Bertani. Il cospicuo lotto viene smembrato e venduto a varie librerie antiquarie, tra cui lo studio bibliografico di Andrea Galli a Rimini: il quale Galli coglie al volo il pericolo di quella dispersione e si impegna a riacquistare le varie parti per ricomporre l’originaria unità dell’insieme.
Il 27 ottobre 2009 la casa Bloomsbury di Roma annuncia la messa all’asta, per soli 10 mila euro, dell’archivio privato di Bellezza, che rimane invenduto, ignorato persino dalle istituzioni pubbliche. Fatto sta che Garrera decide di acquisire il tutto direttamente da Galli, mantenendo intatta la mole dei materiali, la cui lista occupa una cinquantina di pagine fittissime, e chiamando il giornalista e scrittore Igor Patruno a occuparsi della sistemazione. Allo stesso Patruno si deve un saggio, apparso su «Nuovi Argomenti», che illustra i pregi del fondo perduto e ritrovato. Un autentico tesoro, anche in considerazione delle amicizie e relazioni che Bellezza ha intrattenuto con il mondo culturale romano (e non solo) dagli anni Sessanta in poi: senza dimenticare che tra il 1968 e il 1970 il giovane Dario frequentò assiduamente la casa di Pasolini in via Eufrate, occupandosi della corrispondenza e facendo «un po’ da segretario, un po’ da amico, un po’ da giovane poeta in erba», come ricorda Bellezza nel libro dedicato a PPP, Il poeta assassinato (1996). Il quale Pasolini salutò in Bellezza, all’esordio del 1971, «il miglior poeta della nuova generazione». 
Era una generazione che viveva in simbiosi con i padri-maestri, con i fratelli maggiori e minori, tra confidenze, scambi, confronti, in un intreccio di vite vissute insieme. Bellezza fu ben presto al crocevia: non solo Ortese e Pasolini ma Alberto Moravia, Sandro Penna, Elsa Morante, Amelia Rosselli, Dacia Maraini, Enzo Siciliano, Elio Pecora e i coetanei Valentino Zeichen, Renzo Paris, Franco Cordelli...
I carteggi testimoniano il flusso culturale e sentimentale che confluisce nel suo laboratorio creativo. Troviamo, tra gli altri, i nomi di Alessandro Parronchi, Mario Luzi, Andrea Zanzotto, Vittorio Sereni, Libero de Libero, Giuliano Gramigna, Giacinto Spagnoletti, Geno Pampaloni, Gianfranco Contini, Julian Beck, Livio Garzanti, Romano Luperini, Cesare Viviani... I diari raccontano gli incontri, la vita privata, per lo più notturna, di un uomo che non si è risparmiato, con i suoi risvolti osceni, pagine scritte con crudezza, «senza falsi pudori, senza mediazioni», precisa Garrera, che parlando della «violenza della verità» in Bellezza è visibilmente fiero della sua conquista: ci troviamo nella penombra del suo appartamento romano dai pavimenti colmi di pile in bilico (c’è anche un notevole blocco di documenti di e su Giorgio Manganelli), in un piano alto del palazzo ex popolare del Testaccio in cui Elsa Morante visse i primi dieci anni della sua vita. Il sedicenne Dario conobbe Elsa nel 1960 e non fu un rapporto sempre sereno, narrato in tre romanzi allucinati. Una poesia dedicata a Elsa, e registrata su un foglio dattiloscritta, recita: «I nostri sentimenti sono ambivalenti./ Se c’era, c’è in me odio, c’era, c’è anche amore./ Come per Pierpaolo, anche per me/ tu eri maestro e duca, e dunque/ ora te lo confesso che mi manchi. E/ questa privatissima lettera in poesia/ vuole essere il riscatto della mia (e tua)/ atroce nostalgia». 

Una cartellina contiene il dattiloscritto della Medea pasoliniana che l’autore dettava al suo giovane collaboratore intervenendo poi di proprio pugno con correzioni, cancellature e aggiunte. Un’altra cartellina contiene le carte di Lettere da Sodoma, il romanzo del 1972, sfogo crudele in «presa diretta» sull’omosessualità, composto da epistole reali i cui veri nomi sono stati sostituiti con nomi fittizi: il che dimostra come lo scrittore si avvalesse sempre delle proprie esperienze, ispirandosi alla vita vissuta, per poi leggermente trasfigurarla o deformarla.
Ora, guardando i documenti originali si possono scoprire le autentiche identità cassate: accade, per esempio, nel caso di un «Cara Elsa», che diventa «Cara Aspasia», della quale il protagonista Marco ammira «la capacità, pur tra molte sofferenze e dolori e anche gioie, di essere uno spirito libero». È assurdo che oggi quello che è forse il capolavoro in prosa di Bellezza non sia reperibile: e vale la pena suggerire a un eventuale editore che sulla base delle carte d’archivio sarebbe auspicabile un’edizione filologica che dia conto della genesi del libro. 
Una cartella raccoglie 105 paginette dattiloscritte, con correzioni autografe e datate 1978-82, di una prosa il cui incipit è il seguente: «La luce appena accesa mi colpì in tutta la sua crudeltà, allucinandomi. Ero lì, davanti alla mascherina, come imbambolata; e sapevo che quella donna ossuta e ossigenata, ormai vecchia...». Da un altro dossier emerge una pagina tratta dai taccuini che vanno dal 3 marzo 1970 al 30 luglio 1971: «Quale orrore a rileggere, tutto d’un fiato, una manciata di fogli di diario...». Dalle note private, come dalle lettere, affiorano impressioni che si riversano nelle opere letterarie, dove l’autobiografia è appena mascherata. D’altra parte, è pur vero che alcuni amici si configurano subito come personaggi letterari in natura. 
«Tre donne intorno al cor mi son venute...», potrebbe ripetere dantescamente l’omosessuale Dario. E non è un paradosso. Si è detto di Elsa e di Anna Maria Ortese, ma non va dimenticata Amelia Rosselli, conosciuta attraverso Aldo Braibanti – l’intellettuale che fu al centro di uno scandaloso caso giudiziario con un’accusa per plagio che scatenò un mare di polemiche – e introdotta nel giro della libreria Ferro di Cavallo e dei giovani poeti e critici che frequentavano l’associazione Beat 72.
In cerca di alloggio, Dario troverà una stanza in affitto nell’appartamento di Amelia ma la convivenza sarà complicata, un po’ perché lei lo accusa di rubarle dei libri e un po’ perché non sopporta l’andirivieni dei ragazzi. In una lettera manoscritta a pennarello blu e marrone datata 30 gennaio 1970, la Rosselli esorta l’amico «a essere più ragionevole» e, probabilmente in preda alle consuete fantasie persecutorie, inveisce: «Non apprezzo la tua falsità e ti chiedo proprio per l’ultima volta di restituirmi i libri».
I libri richiesti sono due volumi pubblicati da Einaudi: le poesie di Lautréamont e un Dino Campana. Vengono chiamati in causa, come intermediari, Siciliano e Paris. Ma Rosselli pretende anche la restituzione di 20 mila lire: «Se vuoi puoi lasciare ogni cosa dalla portiera. E forse così torneremo amici». E in un’aggiunta disposta sulla pagina in verticale si legge: «(sono senza soldi). Che noia tutto questo!».


Eccolo là, il «dolore dell’economia». Toccherà a Dario ospitare la Ortese, conosciuta nel 1970, per qualche settimana nella piccola casa di via de’ Pettinari, nei pressi di Campo de’ Fiori. «Lei – ricorda Patruno – si adatta. Dorme su reti metalliche che sembrano brande da campo, sopporta il via vai di ragazzi emarginati, di tipi bizzarri». Ortese godeva della piena ammirazione di Pasolini, ma anche di Moravia e di Macchia, i quali nel 1967 l’avevano sostenuta come (vittoriosa) candidata del premio Strega con Poveri e semplici. In una lettera del 5 giugno a Macchia la scrittrice napoletana ringrazia per l’appoggio a un libro «magro, e sgradito all’intera critica della terza pagina»: «Non sarà agevole presentarlo. Di ciò mi scuso, e anche della mia presenza al Premio, che impone agli amici incarichi spesso malinconici». Si converrà che è ben altro stile rispetto a quello odierno.
Anche la bellissima lettera del 9 febbraio 1984 da Rapallo all’amico Dario è piena di riconoscenza, con l’aggiunta però di una buona dose d’affetto, e di scuse per le continue «lagnanze». A proposito di un mancato favore all’amico, che le ha chiesto di mettere una buona parola in vista di un premio (sempre di premi si parla!), Anna Maria precisa: «Ormai, tutti miei rapporti sociali stanno assumendo un aspetto di cosa sognata! Puoi dire a un sogno: per favore, avrei bisogno del suo “appoggio” in questa situazione? Non credo: i sogni parlano, ma non hanno orecchie». C’è il rimpianto di non essere più a Roma: «Per tutte le belle strade che non vedo più, e anche perché non parlo più con nessuno. La vita diventa sempre più astratta». Racconta la sfiducia nel suo lavoro, la rielaborazione di alcuni vecchi versi «in ore rubate alla notte quando sta per dare il cambio al mattino». Vorrebbe mandarli all’amico in lettura, con la speranza (e «la vergogna») di farne magari un libretto: «Ma chi potrebbe stampare un nome che nessuno sente più, quasi scaduto? Quest’anno si presenta terribilmente vuoto di ogni attività, interesse, guadagno. Però, tutto sommato, nemmeno il guadagno importa più tanto, di fronte ad altre cose (sentire suoni, passi, voci reali: non c’è più nulla)».
L’elogio all’amico, a proposito del romanzo Angelo, è questo: «Credo anch’io che tu abbia un modo bizzarro, stravagante, nuovissimo, di raccontare storie: hai il senso doloroso (un dolore nascosto), del grottesco, della difformità del vivere e del pensare. Forse sbaglio?». A 72 anni, Anna Maria dorme poco, sente il vento terribile, si ritrova sola a pensare, si affanna per la depressione della sorella, si porta dietro ancora il «dolore dell’economia»: «I miei amici (se ne ho) sono lontani. E anch’io sono lontana da me, in certo senso, non mi do mai un buon consiglio. Su come, per esempio, pagare le bollette, che malinconia». Per l’amico solo, infinita, insistente gratitudine: «E anche a te, Dario, voglio bene, ricordando questi otto anni davvero brutti, in cui mi sei rimasto vicino come nessuno». Aggiunta a mano con un asterisco di richiamo: «e pagando bollette salatissime». E prosegue: «Mi hai fatto tanto bene concreto, da aver pagato così qualsiasi debito al mondo. Telefonate e così via...». Seconda aggiunta a mano: «Non lo ha fatto nessuno, anche se devo riconoscere che era difficile».