La Lettura, 27 gennaio 2019
L’agonia del ghiaccio
Il ritiro dei ghiacciai è uno degli indicatori macroscopici dei cambiamenti climatici globali più visibile su scala planetaria. I ghiacciai agiscono come importanti regolatori del ciclo idrico stagionale, poiché la loro fusione rifornisce di acqua molte regioni del mondo durante le stagioni secche. I ghiacciai alpini, inoltre, essendo costituiti quasi esclusivamente da ghiaccio a temperatura prossima a quella di fusione, sono sentinelle particolarmente attente alle variazioni di temperatura, soprattutto nei mesi estivi. La riduzione degli stessi porta spesso alla destabilizzazione dei pendii montani e alla formazione di laghi prograciali, molto instabili, e di conseguenza a potenziali frane e alluvioni catastrofiche.
Dalla fine del XIX secolo l’uomo ha iniziato a immettere nell’atmosfera un enorme quantitativo di anidride carbonica, prodotta dall’utilizzo dei combustibili fossili, generando un progressivo innalzamento dei valori di concentrazione: dalle 285 parti per milione (ppm) dell’era pre-industriale fino alle attuali 410. Gli studi sulle perforazioni dei ghiacci antartici, realizzati nell’ambito di un progetto europeo Epica dal Programma nazionale di ricerche in Antartide (www.pnra.it), hanno mostrato che negli ultimi 800 mila anni il contenuto di anidride carbonica nell’atmosfera era oscillato tra 180 e 300 ppm, ma per avere variazioni pari a 100 ppm occorreva un lasso di tempo lungo migliaia di anni. L’attuale variazione antropica, pari a 125 ppm, si è verificata invece in soli 130 anni e a ritmi almeno venti volte più veloci di qualsiasi altra avvenuta in condizioni naturali.
Il conseguente innalzamento antropogenico del livello del mare costituisce un grave rischio per le zone costiere occupate dalle infrastrutture industriali e dai centri abitati. Le aree prossime al livello del mare (sotto i 10 metri di altezza) rappresentano solo il 2% dell’area del pianeta, ma ospitano il 13% della popolazione mondiale. Gli studi dell’Enea hanno evidenziato il fatto che nel corso del XXI secolo, in Italia, circa 5.500 chilometri quadrati di fasce costiere saranno a rischio inondazione (www.enea.it), l’equivalente della Liguria.
Alla base dell’aumento medio del livello del mare troviamo come principali cause l’espansione termica degli oceani, nonché la riduzione di masse e calotte glaciali, e dei ghiacciai alpini. L’analisi dei dati da satellite ha rivelato che la risalita del livello medio del mare è accelerata passando da 2,2 millimetri all’anno nel 1993 a 3,3 nel 2017, quando era invece rimasto relativamente stabile dall’epoca romana sino alla fine dell’Ottocento.
La fusione dei ghiacci ha contributo in maniera crescente all’innalzamento del livello del mare in una misura pari al 50% nel 1993, salita al 70% nel 2014. L’aumento registrato negli ultimi 20 anni è dovuto principalmente alla Groenlandia e all’Antartide che hanno visto crescere il loro apporto rispettivamente del 32% e del 45%. L’accelerazione dovuta al riscaldamento degli oceani è stata piccola (10%) rispetto a quella delle calotte glaciali, ma è simile (13%) a quella della riduzione dei ghiacciai alpini. Due studi, appena pubblicati dalla rivista dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti (www.pnas.org), evidenziano come l’Antartide perda ogni anno una massa di ghiaccio sei volte superiore a quella di quarant’anni fa: se tra il 1979 e il 1990 la perdita era pari a 40 miliardi di tonnellate annue, tra il 2009 e il 2017 è salita fino a 252. Il secondo studio riguarda la Groenlandia e rileva che la perdita di ghiaccio è quadruplicata tra il 2003 e il 2013 e la riduzione maggiore è avvenuta nel settore sud-occidentale della calotta, un’area in precedenza non considerata come cruciale per l’innalzamento del livello del mare.
Documentare le fluttuazioni dei ghiacciai è un elemento chiave dell’osservazione del clima a livello mondiale. Le lunghe serie temporali di misure raccolte dal Comitato Glaciologico Italiano (www.glaciologia.it), indicano un continuo regresso dei ghiacciai delle Alpi dalla fine del XIX secolo, velocizzatosi notevolmente dal 1980 in poi. I ghiacciai alpini hanno perso più del 50% della loro massa dalla fine dell’Ottocento, e l’estensione dei ghiacciai, che in Italia era di circa 700 chilometri quadrati a metà dello stesso secolo, si è quasi dimezzata raggiungendo i 360 chilometri quadrati ai giorni nostri, una quantità pari all’intero volume d’acqua del Lago di Garda.
Il ritrovamento nel 1991 della mummia di Ötzi, «l’uomo di ghiaccio tirolese», il cui corpo è stato scoperto nelle Alpi Orientali, al confine fra Italia e Austria, è testimonianza evidente che l’attuale fase di ritiro dei ghiacci non era mai stata raggiunta negli ultimi 5.200 anni; la mummia risale infatti al 3300-3100 a. C. e si sarebbe decomposta in caso contrario, mentre è stata ritrovata in perfetto stato di conservazione.
Facendo un rapido excursus globale, vediamo come nell’America nordoccidentale, tra il 2000 e il 2018, i ghiacciai si siano ridotti di 120 chilometri cubici, passando da un bilancio negativo di meno tre miliardi di tonnellate all’anno nel periodo 2000-2009 a un meno 13, con un bilancio negativo 4 volte maggiore. Ancora più marcata la riduzione dei ghiacciai dell’Alaska, che nel periodo dal 2002 al 2014 hanno perso 52 miliardi di tonnellate di ghiaccio ogni anno. Anche le nevi e i ghiacciai iconici che abbelliscono la vetta più alta dell’Africa, il Kilimangiaro, stanno rapidamente scomparendo, tra il 1912 e il 2011 si sono ridotti del 85%, mentre nel corso degli ultimi 30 anni il limite delle nevi permanenti è indietreggiato di circa 260 metri passando dai 4.760 metri ai 5.020 attuali. In base alle simulazioni climatiche i ghiacci dalla vetta scompariranno entro il 2030. L’acqua di fusione di nevi e ghiacciai dell’Himalaya e del Tibet alimenta dieci grandi fiumi, tra cui l’Indo, il Brahmaputra, il Gange, il Giallo e lo Yangtze, da cui dipende quasi il 20% della popolazione mondiale. L’attuale stato di salute dei ghiacciai dell’Himalaya è prevalentemente negativo, a causa dell’accelerazione della perdita di massa osservata negli ultimi decenni. I modelli climatici mostrano che circa i due terzi del ghiaccio ora immagazzinato nei ghiacciai himalayani andranno persi nel 2071-2100.
Il carattere globale del ritiro dei ghiacciai avvenuto a partire dal 1980 è totalmente anomalo nella storia geologica degli ultimi seimila anni. I ghiacciai, oltre ad essere dei formidabili indicatori climatici, rappresentano una fondamentale risorsa idrica, energetica, paesaggistica e turistica. Questo patrimonio «economico» sta scomparendo, e le simulazioni ipotizzano per la fine del secolo una perdita del 75% del loro volume sulle Alpi italiane. Se l’attuale tendenza climatica continuerà con questi ritmi, o addirittura peggiorerà, i nostri nipoti non potranno godere di questo patrimonio ambientale.