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 2019  gennaio 27 Domenica calendario

La nuova versione italiana di Guerra e pace

Due volumi gemelli dentro un cofanetto i cui dorsi di tela esibiscono il verde-marino destinato a ingrigire dei Supercoralli Einaudi: la materia e il colore che da più di mezzo secolo deliziano il tatto, la vista, l’olfatto del lettore entusiasta. Eccola qui, la nuova versione del capolavoro dei capolavori romanzeschi: Guerra e pace.
Se non è questo un evento editoriale!
Pare che Emanuela Guercetti abbia impiegato a tradurlo più tempo di quello speso da Tolstoj a scriverlo. Ahimè, non ho le competenze necessarie a illustrare e dare conto dei molti successi di questa traduzione magnifica: l’esatta traslitterazione dei nomi di personaggi minori, l’identificazione di elementi bellici, botanici e architettonici. Ciò che posso e voglio dire, però, è che la perizia e l’acribia profusi dalla traduttrice, così come la sua prosa aerea e fluorescente, hanno rinfrescato e ringiovanito ciò che merita e sempre meriterà di restare giovane e fresco.
È di fronte a imprese del genere che comprendi quanto diceva Iosif Brodskij a proposito della traduzione: è la madre di ogni civiltà. Personalmente ritengo che tradurre sia la forma di critica letteraria più onesta e audace. Trascinare un romanzo da una lingua all’altra significa farsi carico delle pene, le gravose, euforizzanti difficoltà affrontate a suo tempo dall’autore, superandole con lui e contro di lui: parola per parola.
Inizi a leggere e sei perdutoA noi che non sappiamo il russo e che, a meno di un miracolo, non lo sapremo mai, non resta che interrogarsi sulle ragioni per cui, avendo aperto per l’ennesima volta Guerra e pace — ma così solo per dare un’occhiata e rendersi conto – non siamo più riusciti a chiuderlo. Senza quasi accorgercene, trascinati dall’impeto e dalla corrente, dall’ammirazione e dal piacere, dalla complicità e dalla commozione, ora dopo ora, giorno per giorno, ci siamo ritrovati qui, invischiati nel primo dei due famosi epiloghi, esterrefatti e disperati all’idea che manchi così poco alla fine.
Non voglio molestarvi con la solita solfa secondo cui la narrativa di Tolstoj produrrebbe una specie di dipendenza. Né starò lì a dirvi, come avrebbero fatto i suoi contemporanei, i primi sbalorditi lettori russi, che quella di Tolstoj non è arte, bensì natura allo stato brado da contemplare come un qualsiasi altro prodigio del mondo: cascate, deserti, ghiacciai innevati. Ma soprattutto mi guarderò bene, lo giuro, dal commentare la fin troppo fortunata e puerile formula di Matthew Arnold che considerava i romanzi di Tolstoj come una serie di «pezzi di vita»: il guaio è che lo diceva come se gli stesse facendo un complimento.
Dovendo scegliere, preferisco affidarmi a Nabokov che attribuisce la magia tolstoiana a una capacità empirica di riprodurre sulla pagina, in presa diretta, il tempo nel suo dispiegarsi e incespicare. Come a dire, mentre il buon Pierre si fuma la pipa e Nataša lavora a maglia di fronte al fuoco, tu hai l’agio di accenderti una sigaretta e rilassarti. Da qui quella strana impressione che t’invade di invecchiare con i personaggi. Ma da qui anche il senso di calore, partecipazione, felicità che non devo spiegare certo a voi, tolstoiani di mezzo mondo. 
MagiaLa prima traduzione di Guerra e pace che affrontai nella lontana estate dei miei sedici anni era dal francese con i nomi dei personaggi italianizzati (Piero, Andrea, Nicola); ma soprattutto era criminalmente mutilata di buona parte delle battaglie, di tutte le divagazioni storico-filosofiche e dell’intero secondo epilogo. Insomma, una versione per signorine tra amore e sospiri. Immagino che tale obbrobrio editoriale soggiorni ancora in qualche polveroso anfratto dell’avita libreria dei miei genitori. Sebbene da allora leggere Guerra e pace sia diventata un’abitudine frequente, e sebbene nel corso degli anni non abbia mai smesso di interrogarmi sulle ragioni di una fedeltà così compulsiva, il mistero che avvolge questo divino incantatore è ancora lì: intatto come allora.
Come fa Tolstoj a tenere insieme una materia così vasta, varia e complicata senza mai confondersi e annoiarsi? Come può rendere vividi (immortali, si sarebbe detto una volta) i personaggi enfatizzando un lieve difetto di pronuncia o una ridicola montatura di occhiali? Come riesce a donare umana necessità al soliloquio romantico di una fanciulla, alle elucubrazioni teleologiche di un grassone, ai piaceri ferini di un cacciatore? «In Tolstoj – scrive Viktor Šklovskij – la strategia più frequente è il rifiuto di riconoscere un oggetto, la tendenza a descriverlo come se lo si vedesse per la prima volta». Già, proprio così, niente di più vero. Ma la domanda resta sempre la stessa: come fa? Perché, leggendolo, ti viene il sospetto assurdo che il mondo – così come lo conosci: i suoi svaghi, i dolori, le foreste, le carestie – se lo sia inventato lui di sana pianta? Come se non fosse uno scrittore, ma una specie di Adamo che non vede l’ora di mostrarti non solo le delizie dell’Eden ma anche la disperazione di esserne stato scacciato troppo presto e ingiustamente.
Neanche a dirlo non ho risposte. E mi chiedo se non sia questo il grande paradosso della critica; essa rivela la sua impotenza tutte le volte in cui potrebbe svelare la sola cosa davvero interessante: il mistero della creazione.
Allora meglio rifugiarsi in una sorta di tautologia devozionale: Tolstoj è Tolstoj. Ecco tutto. Punto e basta. Ossia un romanziere talmente incontenibile da non rientrare nella categoria. Neppure Victor Hugo è riuscito a coniugare una resa artistica così sublime, un titanismo così dinamico, un ventaglio di sfumature così esteso a una tale piacevolezza di lettura. La sola cosa che mi viene in mente – e temo si tratti di un’idea generica – è che l’incantesimo di Guerra e pace, lo charme inarrestabile e senza tempo, risieda in quella specie di turbinio incessante in cui ti immerge sin dalla prima riga. Non solo Tolstoj avrebbe potuto continuare a scrivere Guerra e pace per tutta la vita, parlandoci della progenie dei Rostov, dei Bolkonskij, dei Bezuchov ma noi non ci saremmo mai stancati di ascoltarlo.
Turbinio incessanteDicevo del turbinio incessante.
Mi spiace che ogni volta per lodare Tolstoj uno finisca per diffamare Flaubert; ma è evidente che tra i due esiste una contiguità (se non altro tematica) che rende tale paragone fatale, ahimè sempre a scapito del mio adorato Gustave. Flaubert dà il meglio di sé nel singolo quadro; perle levigate e scintillanti che chiedono di essere venerate come il vitello d’oro biblico. Peccato che fosse talmente scontento del materiale a disposizione – la mediocrità borghese, la bêtise universale, la triste campagna francese – da impreziosirlo fino all’eccesso. Ciò che di primo acchito può sembrare una qualità, alla lunga si rivela un limite e un difetto. Molto spesso le scene iper-rifinite di Flaubert appaiono inerti, decadenti, circonfuse di un senso di morte che contagia il lettore.
Tutto il contrario di Tolstoj, la cui prosa non teme ripetizioni, sciatterie, scorciatoie corrive, retorica, e che proprio per questo non indugia nel gesto di bravura, non si guarda allo specchio; è una prosa affamata, mai bulimica, che non smette di vorticare, vibrare, animata com’è da un incendio interiore.
Insomma, si sente quando uno scrittore odia la vita. Flaubert la detestava con tutto il suo cuore normanno, Tolstoj la idolatrava (anche per questo talvolta ne era così deluso).
E si sa, amare la vita significa lasciarsi andare allo scorrere inesauribile delle cose e del tempo.
Personaggi in movimentoAngelo Maria Ripellino, affastellando impressioni di lettura su Anna Karenina, annotava divertito: «Curioso questo continuo movimento e ricorso di mezzi mobili». Alludeva al motivo ferroviario che nel romanzo assolve a diverse funzioni essenziali: su tutte, presagire la tragica sorte di Anna.
Qualcosa di analogo si può dire per Guerra e pace. Niente treni naturalmente: siamo all’inizio del diciannovesimo secolo. Ma anche qui è tutto una partenza e un ritorno; un fare e disfare bagagli; un sollievo per chi c’è e un tormento per chi è lontano. Tolstoj ha la fortuna di poter contare su spazi sterminati. Inoltre, lo statuto di scrittore epico (che lui stesso si è immodestamente attribuito sin dai tempi di Infanzia, Adolescenza, Giovinezza) gli consente di spostare eserciti, favorire migrazioni, svuotare città con un semplice schiocco di dita: un privilegio, ammettiamolo, concesso a pochissimi altri scrittori realisti.
Tali distese sconfinate favoriscono una scansione del tempo narrativo che, per certi versi, non ha paragoni tra i romanzi della sua epoca e fa concorrenza ai sofisticati e successivi esperimenti modernisti. Non mi vengono in mente altre opere narrative in cui i personaggi invecchino in modo così naturale e convincente. Tanto per dirne una, gli incontri tra Pierre e Andrej offrono a Tolstoj il pretesto per osservare i cambiamenti sopraggiunti nei due amici d’infanzia. «Pierre non diceva nulla; guardava stupito il suo amico (...). Lo aveva colpito il mutamento avvenuto in lui. Le sue parole erano affettuose, sulle sue labbra e sul suo volto c’era un sorriso, ma lo sguardo era spento, morto, e sebbene evidentemente lo desiderasse, il principe Andrej non riusciva ad accendervi una luce gioiosa e allegra».
Movimento e cambiamento: ecco il mood di Guerra e pace. Non a caso a un terzo del romanzo, dopo il colloquio cordiale tra lo zar e Napoleone, Tolstoj tiene a chiarire che «la vita intanto, la vita delle persone con i suoi interessi fondamentali di salute, malattia, lavoro, riposo, con i suoi interessi di pensiero, scienza, poesia, musica, amore, amicizia, odio, passioni, scorreva come sempre, indipendentemente e al di fuori dell’amicizia o dell’ostilità politica con Napoleone Bonaparte, e al di fuori di ogni possibile riforma».
Coscienze in movimento«Per quanto mi riguarda quando scrivo, provo improvvisamente pietà per un personaggio, e allora gli do qualche qualità positiva, o ne tolgo qualcuna a qualcun altro, così che, in confronto agli altri, possa non apparire troppo nero». Una preziosa confessione che ci dice come l’interesse di Tolstoj non si esaurisca nel movimento degli individui, dei convogli o degli eserciti, ma investa le coscienze e i comportamenti individuali, anch’essi in perpetuo divenire.
Questi accessi di empatia inducono Tolstoj a trattare i suoi eroi con la cautela che pare non avesse nei confronti di familiari, amici e discepoli. Non solo non giudica i suoi personaggi, ma teme a tal punto il giudizio sommario del lettore – positivo o negativo che sia – che fa di tutto per contrastarlo. Certe volte ci viene il dubbio che i protagonisti di Guerra e pace godano di un tale arbitrio e siano così desiderosi di affermare la propria singolarità da sfidare deliberatamente le certezze del lettore e le direttive dell’autore. Per Tolstoj gli uomini sono tutti diversi e complessi, ciascuno degno della massima considerazione. Fa bene George Steiner a ricordarci come nel romanzo non ci sia «un personaggio, per quanto minore, che non abbia la nobiltà di un passato», e come all’arte tolstoiana manchi «quella trasformazione degli esseri umani in animali o in oggetti inanimati attraverso cui le favole, le satire, le commedie e i romanzi naturalistici raggiungono i loro obbiettivi».
Lasciate che faccia un paio di esempi significativi, in un certo senso complementari.
1) Dolochov è un vero bastardo. L’audace, dissoluto, spregiudicato ufficiale, più volte degradato, è il più infido degli amici. Nel corso del romanzo tradisce sia Nikolaj Rostov che Pierre conducendo il primo alla rovina finanziaria e andando a letto con la moglie del secondo, sebbene questi gli abbia offerto una sontuosa ospitalità.
Tolstoj usa il duello con Pierre – in cui Dolochov, a dispetto di ogni pronostico, ha la peggio – per regalarci un quadro imprevisto che almeno per un attimo ribalta il nostro giudizio su un personaggio così negativo. Dolochov è ferito, forse in fin di vita. Allora scoppia a piangere, mica per sé, ma per il dolore che la sua morte potrebbe infliggere alla vecchia madre: «Mia madre» sospira commosso «il mio angelo, il mio angelo adorato». Proprio così: Dolochov – il delinquente, il libertino, il manesco – è anche il più tenero e affettuoso dei figli.
2) Per senso della moralità, nessuno è distante da Dolochov quanto la principessina Mar’ja. Proprio lei, la pia sorella di Andrej, bistrattata figlia dal collerico principe Bolkonskij, appare sin dal principio un essere puro, dimesso e devoto il cui impegno quotidiano è equamente spartito tra atti caritatevoli e resistenza agli agguati umorali e oltraggiosi dell’adorato temutissimo padre. Mar’ja vive a Lysye Gory, nella magione di famiglia. Conosce poco il mondo. Malgrado sia uno dei migliori partiti di Russia e, almeno sulla carta, possa contare su pretendenti all’altezza del suo patrimonio, dispera di potersi sposare. Ogni tanto le capita di carezzare il sogno di una vita di nubilato e sacrificio. Mar’ja ha uno spirito oblativo, poco incline alla malizia, alla mondanità e al cinismo.
Tale integrità priva di ombre non può che dispiacere a Tolstoj. Che, infatti, pian piano, subdolamente, insinua qualche dubbio nel lettore mostrando i lati meno nobili della sua nobile eroina. Avvertiamo una prima incrinatura quando d’un tratto proprio lei – in passato oggetto di truci rimbrotti durante le lezioni di geometria impartitele dal padre – si scopre un’insegnante crudele che maltratta il nipotino per le sue inadempienze scolastiche. Ma questo è solo l’antipasto. Tolstoj ci serve il piatto forte quando il venerato padre di Mar’ja è ridotto in fin di vita da un colpo apoplettico: posta di fronte a questa tragedia, la principessina dà una prova di sé davvero pessima. «Lo assisteva giorno e notte, quasi senza dormire, e spesso, è spaventoso dirlo, lo assisteva non con la speranza di trovare segni di miglioramento, ma desiderando trovare segni dell’approssimarsi della fine. Per quanto le sembrasse strano riconoscere in sé questo sentimento, era innegabile che c’era. E ancora più orribile per la principessina Mar’ja era constatare che dal tempo della malattia del padre (...), si erano risvegliati in lei tutti i desideri e le speranze personali prima sopite, dimenticate».
Il sogno di libertà di Mar’ja è orribile, certo, è poco ortodosso, per niente pio, eppure solo un bacchettone potrebbe non comprenderlo. E tutto si può dire del conte Tolstoj tranne che sia un bacchettone. È ancora il movimento ad attrarlo: la coscienza umana che non trova requie, che scarta come un cavallo spaventato. Giudicare severamente qualcuno è tirargli le briglie.
Splendori e miserie della buona societàSolo partendo da questa istintiva religione del movimento si capisce perché Tolstoj, ansioso di mostrare il suo odio per la buona società, la descriva più incartapecorita di quanto non sia. «Ci sono innumerevoli modi per classificare i fenomeni della vita», scrive, «e uno consiste nel suddividerli a seconda che in essi predomini il contenuto o la forma. Tra i fenomeni in cui predomina la forma, in contrapposizione alla vita di campagna, di provincia, di governatorato, e perfino di Mosca, si può annoverare la vita pietroburghese, soprattutto quella dei salotti. Questa vita è immobile».
È una delle tipiche prediche di marca rousseauiana a cui ogni tanto Tolstoj si lascia andare non senza compiacimento per dichiararsi ancora un volta contro la civilizzazione e a favore della natura. Ma per l’appunto di predicazioni si tratta. Dato che per lui la vita è movimento, gli conviene descrivere il gran mondo in una luce mortifera, immobile e putrescente come una palude. Ma è tutt’altro che vero. Anch’esso, come tutto il resto, è in continuo fermento. Anzi, a ben guardare, sono pochi gli scrittori capaci di registrarne i terremoti con la stessa acribia di Tolstoj (Saint-Simon, Balzac, James, Proust e pochi altri).
Non sorprende che sia proprio l’eccentrico Pierre a pagare lo scotto più salato della volubilità dei salotti. In fondo non capita a tutti di vivere una scalata sociale così repentina e vertiginosa: da figlio illegittimo di un gran signore, goffo, senza patrimonio, mal tollerato in società, al più ambito scapolo d’oro di Russia. Se da un lato Tolstoj usa la fortuna capitata a Pierre per denunciare non senza ironia il filisteismo e l’ottusa ipocrisia dei mondani, dall’altro non può fare a meno di mostrarci come anche la buona società sia sensibile al cambiamento. Non a caso i primi a mutare idea e contegno nei confronti di Pierre sono proprio quell’Anna Pavlovna e quel principe Vasilij che incarnano come nessun altro i pregi ma soprattutto i difetti della buona società. «Prima in presenza di Anna Pavlovna Pierre avvertiva costantemente che quel che diceva era sconveniente, privo di tatto, inopportuno; che i suoi discorsi, che gli sembravano intelligenti finché li preparava nella sua immaginazione, diventavano stupidi non appena li pronunciava ad alta voce (...). Adesso qualunque cosa dicesse risultava charmant». Insomma, a dispetto delle sue stesse convinzioni etiche, Tolstoj non resiste alla tentazione di darci conto dei cambiamenti della vita anche quando vorrebbe suggerire che essi non hanno corso.
Coincidenze romanzescheEppure, senza timore di contraddirmi, anzi ben contento di farlo, vorrei notare che, a fronte del movimento perpetuo – eserciti, individui, coscienze, caratteri, reputazioni, fortune sociali – il mondo di Guerra e pace è paradossalmente piccolo, se non proprio angusto. Prima che mi prendiate per matto, provo a spiegarmi meglio. Fateci caso, i personaggi si spostano sulla scacchiera con scioltezza e senza troppa fatica. Un attimo sono qua, l’attimo dopo dall’altra parte del mondo. Immagino che questo sia uno dei vantaggi, ma anche uno degli handicap più vistosi, del titanismo tolstoiano. Ancora una volta il paragone con Flaubert risulta istruttivo: la sua Bovary, pur desiderandolo con tutta sé stessa, non vedrà mai Parigi. È intrappolata nel suo piccolo ecosistema squallido: ciò contribuisce a rendere sideralmente lontane le città, le nazioni e i continenti dove sogna di fuggire. Al contrario, non c’è luogo che un personaggio di Tolstoj non possa raggiungere.
Solo un mondo allo stesso tempo così vasto e concentrato può giustificare il numero esorbitante di coincidenze o di incontri fortuiti che scandiscono la vita dei protagonisti. Ora, una delle regole auree della narrativa recita: vacci piano con le coincidenze! Niente come la coincidenza getta un’ombra sulla genuinità dell’ordito romanzesco. Ma devo ricorrere alla solita tautologia: Tolstoj è Tolstoj, e di certe regole se ne infischia. A lui le coincidenze servono e per questo non si fa scrupolo ad abusarne. Può permettersele perché l’universo di Guerra e pace, pur così sconfinato, è tutto lì, più piccolo di quanto non voglia sembrare; ecco perché al lettore non pare strano che un personaggio voli in poche pagine da Pietroburgo a Mosca, da Mosca a Austerlitz, da Austerlitz a Lysye Gory.

L’eroe cui tocca il più formidabile numero di incontri improbabili è il dinamico e irrequieto Andrej. Si trova sempre al posto giusto nel momento giusto, a scapito della sua salute e della sua felicità. Non riusciamo mai a capire se sia fortunato o scalognato, ma tant’è:
1) È appena stato ferito, è mezzo morto, eppure stringe eroicamente la bandiera. In quel momento passa Napoleone che, commosso da tanto patriottismo, lo fa curare salvandogli la vita.
2) Dato per disperso torna a casa lo stesso giorno in cui la giovane moglie muore di parto.
3) Viaggia per mesi in Europa per provare a sé stesso e al padre il suo amore per Nataša e rientra proprio nei giorni in cui lei si compromette con lo spregevole Anatole.
4) Giura di vendicarsi, raggiunge il suo battaglione, viene di nuovo gravemente ferito e tra tutti quelli con cui potrebbe dividere la sua disperata degenza, guarda caso, gli capita Anatole con la gamba appena amputata (un’ottima ragione per perdonarlo!).
5) Dopo un lungo periodo in cui non si hanno più sue notizie, ricompare nell’isba vicina a quella dove i Rostov hanno trovato riparo fuggendo da Mosca in fiamme. Il che gli consente di morire vegliato da Nataša e in grazia di Dio.
Converrete con me che nessun romanziere che non si chiami Lev Tolstoj può permettersi un novero così miracoloso di coincidenze senza esporsi al ridicolo.
Epifanie e nichilismoPur se in modo meno evidente e spudorato, anche a Pierre, nei limiti della sua proverbiale svagatezza, succede di trovarsi invischiato in esperienze straordinarie che in un attimo sembrano decidere della sua vita. D’altronde, com’è stato più volte notato (per esempio da Thomas Mann), non c’è eroe tolstoiano che non rechi in sé un tratto del suo creatore. C’è parecchio di Lev in Andrej, in Pierre, così come in Nikolaj. Normale allora che essi condividano i rovelli e le inquietudini che rendevano la vita spirituale di Tolstoj allo stesso tempo entusiasmante e spaventosa. Alla base troviamo l’aporia tolstoiana per antonomasia: il più grande romanziere di ogni tempo, persino nelle sue prove migliori, cede alla tentazione di considerare il romanzo uno strumento di propaganda morale, e non di alto intrattenimento artistico. Come ci ricorda Isaiah Berlin, «Tolstoj era ossessionato dal senso del contrasto tra vita e letteratura, che lo faceva dubitare della sua stessa vocazione di scrittore».
Il buonsenso estetico dovrebbe indurre il lettore a diffidare delle troppo repentine svolte morali e religiose di Pierre e Andrej; così come talvolta gli è capitato di sospettare di analoghi ravvedimenti in certi personaggi di Hugo e Dickens. Ma lo abbiamo detto: Tolstoj è Tolstoj. Le epifanie di Pierre e Andrej, così come quelle di Levin in Anna Karenina, sono parte di un movimento vitale che non ha fine. Ossessionato dalla gratuità della vita umana, assediato dall’insensatezza e dal nichilismo, Tolstoj reagisce come può e come sa: ribellandosi, provando a vedere più di quanto veda, a sentire più di quanto senta. E nemmeno allora, noi modesti lettori, con tutto il nostro scetticismo e il nostro disincanto, nemmeno allora riusciamo a non credergli.