Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  gennaio 27 Domenica calendario

Intervista a Giulio Paolini

Nessun artista ha l’obbligo di fare tanta strada. Ma se arriva all’età di quasi 80 anni e sessanta sono all’incirca gli anni in cui si è dedicato alla propria arte, allora può anche guardare al passato con stupore e riconoscenza, perché qualche forza segreta lo ha spinto fino dove ora è giunto. «Cosa potrei dire di questo lungo tratto che ho percorso che non sia impresso involontariamente già nell’opera?», mi dice enigmatico Giulio Paolini. Siamo a Milano alla Fondazione Carriero, in un bell’edificio quattrocentesco, dove l’artista espone su tre piani un insieme di opere: Del bello ideale è il titolo che ha scelto. Mi incuriosisce la sua figura elegante e discreta così distante da quei supereroi della Marvel che occupano il panorama artistico internazionale.
Si sente un’eccezione?
«Rispetto a cosa?».
Diciamo rispetto allo scalpitio artistico di questi anni. Di lei si parla poco. Non appare. Non dichiara. Un bel muro di silenzio la divide dal resto del mondo.
«Ma non sono così orso! La verità è che parlare di me mi annoia».
Perché?
«Quando si elencano le esperienze si fanno discorsi barbosi o ricostruzioni talvolta inattendibili. Sono sottoposto alla luce del presente, ma io mi sento sprofondato nel passato. Non sono uno storico ma ho una grande venerazione per la storia, come un insieme di memorie. Mnemosine è un ciclo di opere nato con questo impulso».
Fu anche un grande progetto che Aby Warburg realizzò sotto il segno dell’immagine.
«Mi piace che lui abbia posto le immagini sotto il segno della mitologia. Mnemosine, dea della memoria, era la madre di tutte le muse. Non parlerei perciò di passato bensì di antico. È l’antico che mi affascina e mi soggioga. L’antico, non il passato dunque, mi consente di ripensare costantemente le mie opere».
Quindi al suo lavoro di artista?
«L’artista deve avere radici in coloro che lo hanno preceduto. Questa sorta di genealogia nascosta è superiore ad ogni personale passione. Sono arrivato a pensare spericolatamente che in ogni mio quadro ci sono tutti i quadri che lo hanno preceduto. L’arte non ha niente a che fare con l’artefice che le dà vita. Per questo è irrilevante che egli parli di sé».
Eppure siamo qui proprio a parlare di lei e delle sue opere.
«La mia vuole essere una forma di resistenza al predominio dell’Io. Se parlo di me in realtà lo faccio attraverso le maschere che indosso, così come parlando di un’opera le attribuisco un’esistenza parziale, senza poter mai accedere alla sua totalità».
Si chiama assenza di autenticità.
«È quella che separa appunto l’arte dalla vita. Ecco perché un artista è come se prendesse i voti. Si ritira nella sua dimora, attende e ascolta ciò che forse gli verrà rivelato».
Oggi un artista è tutt’altro che un recluso.
«Il suo maggior peccato è di voler incidere sulle cose, mutare il corso del mondo, essere volontà di potenza. Trasformando il gesto in azione. Un po’ come fa l’arte più recente».
A chi o a cosa pensa?
«La Street Art è un buon esempio».
Banksy non è forse un grande artista?
« Le sue quotazioni indurrebbero a crederlo. Ma per un vecchio retrogrado come me, che non ha capacità di adattamento, è solo un geniale agitatore. Un personaggio della ribalta sociale».
L’arte si è spesso intrecciata con le tensioni sociali. Con i desideri inespressi. Perfino con la volontà di rileggere il conformismo. Pensi alla Pop Art.
«La Pop Art è solo un’etichetta. Come lo è "Arte povera", "Concettuale", o "Transavanguardia". Sono ostile a un presente che parli per voci collettive come fossero la voce di un’epoca. Non riesco a concepire l’idea dell’artista che si allinea e si confonde, che canta nel coro di una socialità rivelata».
Può esistere un’opera senza il suo sostrato sociale?


«La società è solo l’espediente perché un’opera viva. Mentre un’opera senza verità non è un’opera».
Ma la “verità” è un concetto difficile da maneggiare.
«Sicuramente è complicato affrontarla perché essa sta in piedi con le proprie forze. Comunque è più autorevole dell’"altra verità", la quale dice che l’arte può comunicare qualcosa del mondo. Per me l’arte non è un messaggio, semmai è soliloquio. Ci fa sentire che esiste senza comunicarci nulla».
Una forma religiosa?
«Per me che non credo, che ho perso la fede da bambino, che non ho più tale fortuna, sono gli unici voti religiosi che abbraccio».
Come era da bambino?
«La mia infanzia è stata un misto di magia e di curiosità. Sono nato a Genova. A due anni ci trasferimmo a Bergamo. Mio padre impiegato e mia madre insegnante. Ogni tanto tornavo a Genova. A 8 anni i miei nonni da cui ero ospite mi portarono al Palazzo Bianco, un museo di arte antica. E improvvisamente mi sentii protagonista di quella visita solitaria. Tutta la grande pittura europea, tra il Cinque e il Settecento, si era data appuntamento in quelle sale».
Lei era un bambino. Cosa poteva capire?
«La mia malattia infantile è stata la precocità. Vedevo quelle opere – Caravaggio, Ribera, Van Dyck, Rubens – e provavo la sensazione che fossero state dipinte solo un minuto prima, tanto mi apparivano contemporanee. Ero lo spettatore di un miracolo che si era compiuto. Senza che ne comprendessi la profondità. Eppure fu quella la prima immersione. Sperai di nuotare tra quelle immagini, ma me ne ritrassi come spaventato. Con un senso di affogamento».
E a quel punto?
«Sentivo l’attrazione e al tempo stesso la minaccia per ciò che avevo visto. Serbai a lungo quel contrasto che mai avrei potuto spiegare. A 12 anni ci trasferimmo a Torino. Ben presto mi abituai all’eleganza sommessa di quella città così diversa dall’energia boccheggiante che trasmetteva Genova».
Studiava?
«Mi diplomai in arti grafiche nel 1959. Mio padre, Angelo, aveva lavorato all’Istituto e spinse perché mi occupassi di grafica. Avevo partecipato a un concorso nazionale del disegno infantile. Con mia sorpresa vinsi il primo premio. Lo ritirai dalle mani di Felice Casorati. Quell’episodio irrilevante destò l’attenzione dei miei. L’anno dopo il diploma realizzai un’opera che cambiò la mia vita».
È il suo lavoro di esordio: “Disegno geometrico”, un’opera rarefatta, neutra, dove su una tela con sfondo bianco segnata da due diagonali, mostra una perfezione vitruviana.
«Di quell’opera conservo la precisa ispirazione che mi si affacciò in quel settembre del 1960».
Cosa avvertì di così fondamentale?
«Compresi che un quadro è solo un supporto di quanto si vede. Ossia la raffigurazione geometrica e spaziale del luogo occupato».
E quindi?
«E quindi mi sono detto: se tolgo l’immagine che cosa resta? Non voglio teorizzare troppo, ma se alla fine c’è solo la quadratura della sua superficie, allora quell’opera è come se si disponesse in attesa di qualunque immagine. Ecco perché non ho mai dimenticato quel momento così puro e ispirato. E molte opere successive ricalcano e rivivono quell’esperienza».
È come se ogni volta rifacesse la stessa cosa.
«Tutto il mio lavoro successivo all’opera geometrica del 1960 è la progressiva presa di coscienza di quell’istante. È difficile da spiegare, ma se penso a una forma di illuminazione è lì che torno con la mente, a quell’attimo in cui un idioma segreto mi svelò qualcosa che mi era totalmente sconosciuto».
Non carica di eccessivo mistero la natura di un’opera?
«È il suo lato imperdonabile. Crediamo di svelarne l’essenza, di avvicinarci alla verità che gelosamente conserva, in realtà possiamo solo rassegnarci a guardarla».
Guardare non è un atto innocente. “Giovane che guarda Lorenzo Lotto” è una sua opera famosa. Perfino provocatoria.
«È il frutto di un rovesciamento. Non è più soltanto lo spettatore che guarda il quadro, ma il dipinto che osserva e coinvolge lo spettatore».
Questa specie di artificio cosa rappresenta?
«Volevo dare importanza al concetto di soglia: al rapporto tra il dentro e il fuori. Perché un’opera ci coinvolge più di altre? Lei accennava al mistero, ebbene la potenza del mistero è di abbracciare l’interno di un’opera e il suo esterno. A questa altezza non c’è nessuna differenza tra lo spettatore e l’artefice del dipinto».
Ogni parte è risucchiata nell’altra?
«Si tratta di estendere il dominio dell’opera. Quando Velázquez dipinge Las Meninas, in un geniale gioco di specchi ci ricorda che l’artista è parte di quell’opera e al tempo stesso ci fa percepire cosa accade fuori dal quadro».
Quando Michel Foucault analizzò quell’opera pose anche lui l’attenzione allo sguardo.
«Il libro Le parole e le cose uscì nel 1966, la mia opera era dell’anno successivo. Mi stupii nel ritrovarvi alcune intuizioni. Come il tema della rappresentazione o del rapporto visibile- invisibile. Guardare un quadro sembra il gesto più naturale che esista. Invece è qualcosa di complicato. È questo che ci suggerisce Foucault».
Complicato perché?
«Perché in un certo senso non siamo noi che guardiamo il quadro, ma è il quadro che “guarda” noi, ci assorbe, ci risucchia. Davanti a un’opera non siamo più spettatori naturali, distaccati e riflessivi. Ma parte di quell’opera. Entriamo così in un ordine diverso».
Che è comunque un ordine geometrico. A questo proposito si è accostata la scrittura di Calvino al suo lavoro.
«Forse entrambi pensavamo di far parte di un linguaggio più che
del mondo. Di una sintassi, come scrisse Calvino in un testo bellissimo che introduceva un mio libretto del 1975».
Mi pare si chiamasse Idem.
«Sì, ed era nato in modo curioso. Un paio di anni prima avevo fatto una mostra importante allo Studio Marconi di Milano. Giulio Einaudi venne a vederla e la trovò di qualche interesse. Quella sera a cena, quando ci stavamo per lasciare, lui mi disse: sa Paolini le sue opere a volte mi sembrano le pagine di un libro molto teatrale. Ne faccia uno per noi. Mi colpì quell’osservazione. Ci pensai su e poi accettai. E lui chiamò Calvino perché scrivesse l’introduzione».
Calvino scelse come titolo La squadratura.
«Aveva colto il bisogno di esattezza e di simmetria».
L’ossessione di un ordine geometrico da dove le nasce?
«Beh, intanto non la definirei ossessione, è un postulato, di quelli che si usano nei teoremi. Ma non ho nulla contro le asimmetrie. A Roma nel 1964 feci la prima mostra importante alla galleria La salita, che allora primeggiava con la Tartaruga. E mi piaceva molto la città per quel suo essere sghemba fin nell’anima. Frequentavo allora Mario Schifano, Franco Angeli, Tano Festa, Alighiero Boetti. Tutti artisti sghembi, asimmetrici, irregolari».
Cosa le piace della simmetria?
«Il suo equilibrio e poi, di fronte all’asimmetria che urla, la simmetria parla sottovoce».
Il suo lavoro fu molto apprezzato da Carla Lonzi, una femminista a cui non dispiaceva urlare.
«Lei allude a Sputiamo su Hegel. Ma quando la conobbi scriveva soprattutto di arte. Era stata allieva di Longhi, dal quale si distaccò credo in maniera traumatica. Alla Salita si presentò insieme all’amica Marisa Volpi. Mi sembrò da subito una spettatrice ideale».
In che senso?
«Mostrava una capacità, del tutto insolita nella critica d’arte di allora, di aderire al pensiero di un’opera. Fu lei che per prima parlò di me a Luciano Pistoi che aveva un importante galleria a Torino. Stiamo parlando di anni remoti».
Oggi come affronta il suo lavoro?
«Vivo a Torino e ogni giorno vado al mio studio. Provo a combinare qualcosa ma con meno energia. La mia vita lavorativa è piena di tempi morti. Ho capito che sono importanti. Sono sempre più attratto dall’inerzia. Un modo di morire e rinascere».
Come pensa alla morte?
«Sono scisso tra qualcuno che ancora calpesta questa terra e un altro che non considera necessario doverlo fare. Morire non è una tragedia. Mi risparmio il discorso sull’attaccamento alla vita. Ho sempre trovato volgare la frase: bisogna saper vivere perché presuppone aver approfittato della vita per fare cose utili».
Non è attaccato neanche alle sue opere?
«Per me è sufficiente che un’opera sia stata fatta, che la sua immagine esista».
Ha figli?
«Ho una moglie più grande di me e quando cominciammo a convivere era tardi per averne. Non ne sento la mancanza. Sono piuttosto scettico sui valori dinastici. Soprattutto oggi non mi sembra un atto benevolo mettere al mondo dei figli».