«Il mio compito è fare in modo che le foto "avvengano". La maggior parte delle fotografie che pubblichiamo è progettata da noi editor e può partire da un tema che abbiamo in mente, dalla proposta di un fotografo o più spesso dall’idea di un giornalista. I nostri contenuti sono vari e in termini fotografici possiamo dire di essere universali: a volte pubblichiamo qualcosa di puramente fotografico, altre volte potrebbe essere un tema internazionale — la guerra, i rifugiati, la crisi. Spesso affrontiamo la politica, il Presidente o il Congresso, oppure argomenti che interessano direttamente i lettori, i modi in cui le persone vivono, storie sul tema della salute. Fotografiamo soprattutto cose familiari. Ma cercando di realizzare sempre qualcosa di visivamente diverso. E parte della sfida del photo editor è invitare il fotografo a reinventare il mondo».
Può farci un esempio?
«Uno dei servizi migliori realizzati l’anno scorso è stato il numero speciale su New York. L’ufficio fotografico ha proposto diverse idee e alla fine il direttore Jake Silverstein ha scelto il tema dell’amore romantico: dai tatuaggi rimossi dopo la fine di una relazione, ai club per amori perduti, agli innamorati sul traghetto, a quello che resta quando la persona amata scompare... Per la copertina abbiamo incaricato il fotografo Ryan McGinley che ha deciso di raccontare " il bacio". Ha proposto di affittare un camion per le riprese cinematografiche, aprirlo nella parte posteriore e riprendere una serie di coppie sullo sfondo di New York in movimento per 24 ore. Abbiamo lanciato un appello alle coppie newyorkesi attraverso i social media del New York Times, ricevendo migliaia di proposte. L’idea era di rappresentare la città attraverso tutti i tipi di amori, dai più longevi, ai più giovani, gay, etero, misti. Abbiamo pubblicato 24 versioni diverse della copertina. È stata una delle più grandi — ed emozionanti — produzioni mai realizzate».
Come si legge una fotografia?
«Prima di tutto penso che un’immagine vada letta emozionalmente. È attraverso l’emotività che comunichiamo con i nostri lettori. Poi si deve guardare alla composizione, se è a colori o in bianco e nero, all’inquadratura e infine all’aspetto più importante: la luce, sempre. Il fotografo incornicia il mondo. La fotografia consiste nel cercare di fare ordine nel caos: quando coinvolgi un professionista devi avere fede nella sua abilità di riconoscere questo caos per riorganizzarlo. Ogni immagine dovrebbe essere una dichiarazione diretta ed esplicita: "Guarda quanto è bello", "Guarda quanto è triste", "Guarda quanto è scioccante"...».
Il New York Times è un opinion leader per il mondo. La sua visione della realtà ci dà un esempio ed è spesso un punto di partenza per un dibattito. Come decide a chi affidare questa visione?
«La cosa più entusiasmante è poter lavorare una settimana con fotografi leggendari come Lee Friedlander e Nan Goldin, oppure lo stesso Paolo Pellegrin, e quella successiva con fotografi di cui nessuno è a conoscenza. Ci vuole comunque sempre un atto di fede, non sappiamo mai come andrà il lavoro. Nel giornale è molto importante introdurre costantemente nuovi talenti, nuovi punti di vista. Abbiamo una responsabilità: il nostro pubblico è molto vario e vogliamo che questa diversità si rifletta nelle pagine. Ho il grande lusso di lavorare in un settimanale: abbiamo 52 numeri in un anno, quindi perché non correre rischi?».
I fotografi non sono più testimoni esclusivi e " reporter". Una fotografia (che potrebbe essere una notizia) scattata da un utente dei social media ha lo stesso valore di una fotografia scattata da un fotografo professionista?
«La differenza tra la fotografia di un cittadino e quella di un professionista è enorme. Il primo potrebbe essere semplicemente nel posto giusto al momento giusto, il fotografo interpreta il mondo. La sua non è mai una mera documentazione, non è mai solo contenuto, ma è una scelta di contenuto e di inquadratura. Ogni fotografia deve essere una dichiarazione».
Ha visto un cambiamento nel rapporto numerico tra fotografi e fotografe sulla rivista? Pensa che sia importante incentivare l’uguaglianza tra uomini e donne?
«Ricordatevi: i punti di vista contano. I fotografi sono molto soggettivi, quando scattano portano con sé chi sono, la loro esperienza di vita. È scioccante quando ti rendi conto di quanto siano sottorappresentate le donne. Il campo della fotografia è dominato dagli uomini. Ora ci sono più donne che fanno fotografia. Non ci sono più scuse. Al NYT vogliamo essere sicuri di rappresentare ogni punto di vista, quello delle donne e quello delle persone di colore. Per farlo bisogna semplicemente volerlo. Dobbiamo lavorare duro per diminuire le disparità. Quindi, ogni volta che abbiamo un incarico, invece di chiamare il primo fotografo che ci viene in mente — che è spesso maschio — ci pensiamo con più attenzione».
Parliamo della verità. In questi ultimi anni in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti, è emerso il grande tema della post-verità. La fotografia secondo lei è sempre un documento onesto?
«Ottenere la verità è la parte principale della nostra missione. Non alteriamo mai le immagini, siamo estremamente severi a riguardo. Non manipoliamo mai un lavoro di reportage, non più di quello che avremmo fatto nella vecchia camera oscura, forse aggiungendo un po’ di contrasto o poco altro. Anche quando costruiamo un’immagine concettuale in studio, dobbiamo comunque mantenere la verità e l’onestà rispetto all’idea che vogliamo esprimere. Il tema della verità inoltre è molto importante quando raccontiamo la politica degli Stati Uniti. In questo il fotografo ha molto potere e quindi una grande responsabilità: si deve creare una sorta di tensione tra fotografo e soggetto».
Crede nelle immagini " simbolo" come quella del corpo di Alan Kurdi (il bimbo sulla spiaggia all’inizio chiamato erroneamente Aylan) o del fumo dalle Torri gemelle dopo l’attacco dell’11 settembre? Il ruolo della fotografia deve essere documentario o simbolico?
«Ci credo, nel senso che spesso è il tipo di immagine che provoca cambiamenti, che fa arrabbiare la gente al punto da agire attivamente. Sono immagini che possono avere un impatto enorme».
Ma quali sono i limiti etici della rappresentazione della violenza?
«Quando si tratta di riprodurre immagini violente e disturbanti, ogni caso deve essere considerato a sé. Se pubblichiamo un’immagine è perché abbiamo considerato che la notiziabilità è cruciale e che le persone devono vedere. Discutiamo anche di come reagiranno i nostri lettori e se sarà "troppo". È difficile e non si possono prevedere le conseguenze. Di recente abbiamo pubblicato la fotografia di un bambino affamato in Yemen scattata da Lynsey Addario. Nello stesso momento il quotidiano ha pubblicato un’immagine di Tyler Hicks molto iconica e potente di Alma, un’altra bambina affamata. Prendiamo le cose molto seriamente: volevamo spiegare il perché di questa scelta con un editoriale. Tempo fa invece Jake Silverstein ha deciso di pubblicare una fotografia di Mark Peterson che ritraeva una manifestazione nazista e una svastica che bruciava… Gail Bichler, design director, ha messo sull’immagine un lungo elenco con i recenti episodi di violenza a sfondo razziale, chiunque poteva consultarlo e capire il motivo della nostra scelta: "Questo è quello che sta accadendo negli Stati Uniti, ora"».
Che ruolo giocherà la fotografia in futuro?
«Mi piacerebbe saperlo... Posso solo dire con certezza che la fotografia avrà un ruolo più importante che mai perché la narrazione visiva in questo momento domina i media. Con l’enorme quantità di immagini che vengono realizzate e consumate, i lettori si relazionano al mondo in un modo molto visuale. Le immagini ben fatte avranno sempre un posto di primo piano; ma devono essere immagini singolari che ti fanno fermare e non girare la pagina».