Il bello è che, dopo lunga frequentazione con l’opera di Leopardi, lei fa in queste pagine un elogio del “non capire”.
«Siamo abituati dalla scuola e dall’università — lo dico anche da docente universitario — a un esercizio di trasmissione del sapere inevitabilmente meccanico. E alla verifica che quei contenuti siano passati: le date, le forme metriche. Ma le cose vive — e io penso all’Infinito come a una cosa viva — non si adattano a un contenitore, restano esuberanti e informi. Ecco perché "non capire" non è un limite. Funziona così anche con gli esseri umani: pretendiamo di capirli, ma se uno si sente troppo schiacciato da questa pretesa, si ribella, non accetta di essere ingabbiato in uno schema».
Per spiegare la sua posizione di lettore e interprete, lei richiama la lezione involontaria di Elsa Morante.
«Ho avuto la fortuna di frequentarla quando avevo vent’anni e lei quaranta di più, mi prese sotto la sua ala, ma niente con lei era semplice. Però ho capito, standole accanto, che non è bene distinguere troppo un poeta da un essere umano. Possiamo avvicinarci e poi allontanarci, essere entusiasti e poi delusi, avere un’illuminazione che per un istante sembra chiarire tutto, e poi ripiombare nell’incomprensione. Ma tutto questo è molto stimolante».
Perché prova a smontare la categoria del genio?
«Si dice genio spesso per prendere le distanze, per tirarsi fuori dalla sfida. In realtà, oggi un ragazzino nato nel subcontinente indiano conosce più lingue di quante ne conoscesse l’adolescente Leopardi. Il rischio è inchiodarlo a un’erudizione fuori misura, come se non fosse lui per primo a riconoscere la freddezza di quel sapere, a distinguere fra erudizione e conoscenza».
Che ne facciamo dello “studio matto e disperatissimo”?
«Lo lasciamo dov’è. Negli anni Trenta dell’Ottocento, quando è alle prese con la sistemazione dei Canti, si è già lasciato alle spalle quella fase. "Io già più non leggo", confessa; si paragona a un tronco che soffre. Ha nella testa domande brucianti, radicali, sulla vita, sugli altri, e sono queste a diventare più decisive dei libri letti e studiati. E poi ha sufficiente lucidità per guardare al destino del padre, indebolito, rovinato dalla sua passione di bibliofilo».
Anche sul rapporto di Giacomo con papà Monaldo lei prova a rompere qualche schema.
«Se la freddezza del legame con la madre è indiscutibile (Adelaide pregava affinché i figli morissero, così da evitare il peccato), il rapporto col padre è intensissimo. Non si può ridurre Monaldo a una caricatura. E d’altra parte, se penso a me come padre o come figlio, vedo molti diritti e molti rovesci, gesti che si chiariscono negli anni. Resta una " parte oscura" nel rapporto fra Giacomo e Monaldo. Nello stranoto episodio della fuga fallita da Recanati, anche lo strappo con il padre è da leggere — quasi sempre è così nei conflitti fra genitori e figli — come parte di una contraddittoria ricerca di sé. È come se Giacomo "usasse" Monaldo per capire cosa vuole essere davvero: politicamente, spiritualmente, umanamente».
Per “non capire” L’infinito, lei dice, dobbiamo interrogarci sulla siepe.
«La siepe è un limite, e nello stesso tempo è " cara". È come gli appuntamenti della vita: un esame, una soddisfazione professionale, il matrimonio o il divorzio, la fine della scuola, i figli. Non facciamo altro che immaginare la fine di qualcosa, un punto di arrivo. Ma oltre la siepe cosa c’è? Il ventenne Leopardi aveva già afferrato il senso della vita in questo eterno contrasto, in questa ricerca di infinito nel finito. Però, ci avverte, quel senso è già tutto qui, nell’essere vivi».