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 2019  gennaio 27 Domenica calendario

Intervista a Ute Lemper

Cominciarono a chiamarla “la nuova Marlene” quando aveva poco più di vent’anni e a Parigi era Sally Bowles nel musical Cabaret diretto da Jérôme Savary. Qualche anno dopo, quando la scritturarono per L’angelo azzurro a Berlino, il paragone con la diva della Repubblica di Weimar diventò non solo inevitabile ma anche imbarazzante per la giovane Ute Lemper. «Marlene era Marlene, quando cantava le canzoni tristi tra le due guerre ma anche quando, molti decenni dopo, interpretava quelle francesi o gli inni di protesta di Bob Dylan e Pete Seeger — inimitabile», dice la Lemper, 55 anni, da oltre trent’anni protagonista al cinema, in teatro e in musica di opere di altissimo livello legate a Brecht & Weill, ma anche a Édith Piaf, Jacques Brel, Michael Nyman, Astor Piazzolla, Nick Cave, Peter Greenaway, Robert Altman, Charles Bukowski e Paulo Coelho. L’artista torna in Italia per celebrare in modi diversi la sua Germania: a Torino e Cuneo, il 31 gennaio e l’1 febbraio, replicherà Songs for eternity (già presentato al nostro pubblico nel 2017), commemorazione delle vittime dell’Olocausto con un programma che comprende canzoni composte nei lager tra il 1941 e il 1944; con lo stesso ensemble a Cesena e Roma, inserito nella programmazione dell’Accademia di Santa Cecilia, il 3 e 4 febbraio, svelerà in Rendez- vous with Marlene il segreto che per decenni ha preferito non condividere — una telefonata di tre ore con la Dietrich. Le scrisse una lettera proprio mentre recitava a Parigi, la città in cui la divina viveva da reclusa in un appartamento di avenue Montaigne. E Marlene, che aveva letto di lei sui giornali, la richiamò. « Parlammo anche dei terribili avvenimenti che la indussero a lasciare la Germania, a diventare cittadina degli Stati Uniti e soldatessa dell’esercito Usa » , racconta la Lemper. « Come tedesca nata dopo la Guerra, sposata con un ebreo newyorkese da vent’anni, sento la responsabilità di onorare la cultura del popolo ebraico e stimolare il dialogo sulla Shoah, ma anche la donna che in disaccordo con il nazismo rischiò la vita e quella dei familiari che aveva lasciato in patria per aver detto: io e la Germania non parliamo più la stessa lingua».

Perché ha aspettato tanto a raccontarlo?
«Dopo The blue angel ho spesso cantato le sue canzoni, ma non volevo diventare la Dietrich né un’imitatrice di Marlene e cadere nello stereotipo della diva bionda dagli zigomi alti e le gambe lunghissime. Il suo repertorio era limitato, in accordo con le sue possibilità vocali. Cantava parlando, recitando, non avrei mai potuto né voluto usare quel registro. Non lo faccio neanche in Rendez- vous with Marlene: semplicemente racconto una storia che all’epoca non avrei potuto narrare. Quando le scrissi lei aveva 87 anni, io 24; non ero particolarmente affascinata dalle canzoni interpretate in tarda età, le consideravo old fashioned, mi piacevano Beatles, Pink Floyd, Stevie Wonder più che Burt Bacharach, che l’accompagnava al piano. Non ne ho mai parlato perché si è sempre esagerato con i paragoni tra me e Marlene. Ora che è passato tanto tempo, c’è qualcosa nella sua vicenda che capisco meglio».
Cosa, esattamente?
«Un misto di simpatia, compassione, ammirazione. È stata una donna coraggiosa, che ora voglio celebrare con venti delle sue più belle canzoni, dal periodo tedesco a quello americano e francese. In mezzo, i ricordi di quella telefonata: di quando nel 1939 diventò cittadina americana, dei trionfi hollywoodiani e di Billy Wilder, dell’impegno nell’esercito che mise a rischio la sua carriera, della delusione di essere stata trattata come una traditrice e rifiutata dalla sua Berlino nel 1960, dell’amore per Rilke, del dolore che la figlia Maria Riva le causò con quell’infame biografia (Marlene Dietrich mia madre, ristampato nel 2007 da Sperling&Kupfer, ndr)».
Doveva essere una lettera toccante se Marlene decise di contattarla.
«All’epoca il telefono era il solo mezzo per comunicare con l’esterno. Lei non usciva mai, non faceva vita mondana, non riceveva nessuno. Mi richiamò perché era incuriosita dal fatto che una giovane tedesca fosse così famosa in Francia».
Sarebbe venuta a Berlino alla prima di “The blue angel” nel 1992 se non fosse morta pochi mesi prima?
«No, non sarebbe mai uscita da casa, negli ultimi dieci anni detestava farsi vedere. Pagò la sua libertà, la sua generosità e la sua indipendenza con la solitudine; Marlene non è morta in una villa con piscina ma in un appartamento parigino la cui pigione era pagata dal governo francese».
Fu per lei un peso essere definita a poco più di vent’anni la nuova Marlene?
«Mi faceva sorridere e mi preoccupava, appartengo a una generazione diversa, e tutte le osservazioni che facevano sulla nostra presunta somiglianza fisica erano sciocchezze. Solo oggi, alla luce delle mie esperienze di vita, riesco a vedere delle affinità: da vent’anni vivo negli Usa; ho abitato a Londra e a Parigi, la mia città preferita e anche la sua; siamo entrambe donne volitive e indipendenti. A differenza di lei, mi sono costruita una famiglia stabile, amo il mio secondo marito e i miei figli — non credo che la massima aspirazione di Marlene fosse essere madre e moglie».

«Le grandi voci autentiche ed espressive: Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan e Nina Simone. Ma anche Barbra Streisand e Joni Mitchell e Liza Minnelli. Ero una ragazzina provinciale e ribelle, non sognavo il mondo dello spettacolo, pensavo solo a farmi una cultura, diventare insegnante magari».
Quanto di quella telefonata racconterà al pubblico?
«Lo spettacolo è concepito come una pièce teatrale. Da una parte ci sono io che interpreto Marlene al telefono, dall’altra c’è Ute che risponde e chiede. C’è un copione che lega i brani; cinquanta per cento Marlene, cinquanta per cento Ute».
L’Europa non le manca? Tornerà un giorno, come Marlene?
«Non ho un passaporto Usa, non mi sento americana, non mi identifico con la cultura né con la politica, tantomeno con lo stile di vita americani. Sono profondamente europea. Appena i miei due ragazzi saranno cresciuti tornerò a casa. Non vedo l’ora».