Corriere della Sera, 27 gennaio 2019
Vittorio Di Battista contro tutti
Al telefono risponde educatissimo (e non è, diciamo, la sua cifra verbale più nota): «Buongiorno dottore, non posso parlare, sono a una riunione sull’acqua pubblica». Probabilmente la frase più mansueta pronunciata negli ultimi anni. Perché un compendio del pensiero di Vittorio Di Battista, realizzato attraverso le risposte ai cronisti ma anche gli scritti sui social e sul sito Catzebao, comprenderebbe un florilegio di insulti, dichiarazioni roboanti, clangori futuristi, volgarità provocatorie, fascismi esibiti.
Qualche mese fa Di Battista senior – dopo aver etichettato le istituzioni come una «ciurma di delinquenti» e aver ribadito per l’ennesima volta di essere «un fascista» —, spiegava: «Datemi il potere assoluto per sei mesi e risolvo tutti i problemi d’Italia». Vanteria rodomontesca già in astratto, ma ancora di più, con il senno di poi. Perché Di Battista non è riuscito a risolvere un problema di dimensioni decisamente più modeste, quello dell’azienda familiare, la Di.Bi. Tec, che commercializza apparecchi sanitari a motore. E che sta colando a picco, oberata di debiti verso le banche, i fornitori e i due dipendenti ufficiali. E mentre si esibiva contro la «ciurma di delinquenti», nella sua azienda si lavorava in nero, come da sua stessa ammissione
La doppia personalità di Vittorio – narciso e fumantino, moralista con gli altri e indulgente con se stesso – si riflette, in qualche modo, nell’atteggiamento del figlio. Che difende da sempre questo padre ingombrante e irruente. Da piccolo lo vide apostrofare Massimo D’Alema, a bordo della sua nave Corfù: «Vecchio porco, in Italia licenziano e tu stai qui a viverti la vita. Delinquente!». Camerata dichiarato, ex consigliere dell’Msi ribattezzatto «Littorio», Vittorio spara a zero contro tutti, 5 Stelle compresi. A un certo punto li definisce «la corazzata di Fantozzi» e si dice «amareggiato, disilluso, tradito». Come racconta il direttore del CorriereLuciano Fontana nel libro Un Paese senza leader, la sua analisi è impietosa: «Col vaffa e con l’apriscatole abbiamo fatto irruzione nella palude di m. Abbiamo terrorizzato i nemici. È stato veramente uno tsunami che li ha costretti a una fuga precipitosa. Ma il Movimento è diventato osservante delle regole, rispettoso delle istituzioni. Il tonno è rimasto nella scatoletta, ci hanno dato il contentino di cambiare qualche goccia di olio rancido, ma il tonno è sempre lì».
Il figlio Alessandro, con un misto di affetto e di timore, minimizza, tronca, sopisce: «Mio padre fascista? Sì, ma è il fascista più liberale che conosca. Un fascista per le unioni civili». A suo padre, spiega, «piace provocare, è nel suo carattere. Io lo stimo perché mi ha insegnato questa irriverenza».
«Irriverenza» forse non è la parola giusta per l’approccio che ha con i cronisti. Talvolta è arguto, divertente, ironico. Altre volte attacca con violenza. Come quando apostrofa lo sventurato cronista, riecheggiando Cioran e soprattutto Beppe Grillo: «Ti mangio e ti vomito». O ancora: «Buongiorno, se la prenda nel c.». Oppure: «Andate a pulire i cessi del supermercato». Non si pensi che con i leader sia pervaso da timore reverenziale. Renzi è «il grullo cazzaro». E perfino il capo dello Stato diventa «mister Allegria». E il Quirinale «è più di una Bastiglia, ha quadri, arazzi, tappeti e statue. Se il popolo incazzato dovesse assaltarlo, altro che mattoni».
Incontinenze verbali, eccessi di agonismo. «Irriverenza», come dice Alessandro. Che forse, dopo gli ultimi sviluppi, ci penserebbe due volte prima di dire che il padre è «onesto». Ricordando quel che disse Vittorio di un altro padre in difficoltà, Antonio Di Maio, con un commento cromatico premonitore: «Non rompete il fianoromano, il nero serve ai piccoli imprenditori, ai direttoroni di giornaloni, ai sub appaltati, alle imprese sub appaltanti, ai politici e alle alte cariche parlamentari. Nero è bello. Ma il nero tendente al rosso diventa di un altro colore. Diventa marrone, il colore della m.».