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 2019  gennaio 27 Domenica calendario

Intervista a Turi Munthe: «Il mondo ha fame di notizie vere»

Turi Munthe è un giornalista diventato imprenditore e investitore nel campo dei media. Vive a Londra. Ha studiato a Oxford e all’Università ebraica di Gerusalemme e poi alla New York University. 
Cosa sta facendo adesso?
«Ora sono socio di una società finanziaria, North Base Media, che investe nei media e ho appena fondato Parli.co, una “wikipedia delle opinioni”».
Che cos’è North Base Media?
«È una società di venture capital che investe nei media e nella tecnologia dei media».
Chi sono i suoi partner?
«I fondatori sono Marcus Brauchli, già a capo del Wall Street Journal e del Washington Post, e Sasa Vucinic, fondatore del Media Development Loan Fund».
I media sono un buon affare?
«In Occidente, in 20 anni, hanno sofferto terribilmente con Google, Facebook, e Craigslist che hanno azzerato i ricavi degli annunci economici. Quindi abbiamo visto un declino nel numero di giornalisti e delle pubblicazioni, mentre i modelli aziendali sono cambiati. Ciò ha creato l’opportunità di far emergere una serie di nuovi media, ma in Europa e negli Usa è difficile individuare le linee di sviluppo». 
Dove investite?
«Investiamo nei mercati in crescita: Messico, Medio Oriente, Africa, India e Sud-Est asiatico. Mercati enormi con enormi popolazioni di giovani, dove assistiamo a una crescita di Internet e dei dispositivi mobili. Lo smartphone sta cambiando tutto».
Non c’è più vero giornalismo?
«Il “vero giornalismo” è più vivo che mai e un pubblico sempre più vasto nel mondo utilizza i media in modi sempre più diversi e immediati. Con questi cambiamenti arrivano sfide importanti - c’entra molto l’algoritmo delle notizie di Facebook - ma abbiamo trovato un’enorme fame di notizie e nuovi media».
Lei è un uomo eclettico: oltre ai media, cosa le interessa?
«Il mio campo di interesse sono i media. Ho fatto il giornalista in Medio Oriente, ho curato un libro su Saddam Hussein e ho fondato la Beirut Review of Books, un nome fin troppo ambizioso. Poi nel 2008 ho fondato quella che speravo fosse una gigantesca piattaforma di scambio di informazioni, Demotix. Cercavo di costruire una piattaforma dove tutti potessero pubblicare notizie. Volevo costruire la Reuters o la Associated Press, ma dal basso: siamo diventati la più grande rete di fotogiornalisti e abbiamo venduto l’azienda a Corbis».
E adesso?
«In modo altrettanto presuntuoso cerco di costruire una specie di enciclopedia di opinioni. È un wiki, il che significa che chiunque può modificarlo. L’ho chiamato Parli - www.parli.co. In inglese è un vecchio modo per definire una negoziazione, un “parley”».
Perché creare un’enciclopedia ai tempi di Google?
«Dopo il 2016 - Brexit, Trump, il referendum di Renzi - quando miliardi di parole a favore di una parte o dell’altra dilagavano, mi colpì che, in ogni discussione, ci fosse un numero molto limitato di argomenti e opinioni. Così ho immaginato Parli: una piattaforma in grado di mappare tutte le opinioni su qualsiasi tema».
Viviamo in un mondo sempre più semplificato: la pluralità sembra fuori moda rispetto al populismo?
«Quando guardo il panorama dei media, vedo il tribalismo. Il consenso liberale con cui siamo vissuti così felicemente nell’ultima generazione - un po ’di libero mercato, un po’ di welfare - è finito. La polarizzazione in sé non è negativa: il “consenso” può essere una definizione alternativa per il pensiero di gruppo. Ma, se vogliamo approfittare dei nuovi approcci alle sfide del XXI secolo, dobbiamo essere in grado di dialogare attraverso le differenze».
Siamo diventati tutti fotoreporter con gli smartphone?
«Sì, ma non è tanto il fotografo quanto il pubblico. Il pubblico ora si fida di questo nuovo linguaggio visivo del cellulare».
Più immagini o più parole?
«Per me, sempre parole».
Trump l’ha capito con i suoi tweet. Anche Salvini e Macron usano i messaggi come modo di comunicare. Tutti bypassano i giornalisti?
«Trump è l’antesignano del giornalismo partecipativo. Gestisce il suo ciclo di notizie. Penso alla disperazione dei media tradizionali dopo la sua elezione. Disperazione che era un mea culpa: “Come abbiamo potuto non fermarlo?” Pensavano, presuntuosamente, di avere un impatto».
Ora, cinicamente, i media apprezzano Trump perché è sempre alla ribalta e quindi vendono più copie?
«È una scommessa diabolica. Trump tenta i media per esporre i propri principi in cambio di pubblico: la Cnn, per esempio, potrebbe essersi danneggiata irreparabilmente, ma altri prospereranno anche dopo Trump».
Cosa è successo al Washington Post?
«Questo è un periodo di fantastico giornalismo: un pubblico gigantesco senza costi aggiuntivi. Il grande disastro è nel giornalismo locale (che serve una funzione democratica così critica), in cui non abbiamo ancora trovato un modello di sviluppo sostenibile».
(Traduzione di Carla Reschia)