La Stampa, 27 gennaio 2019
A Tokyo la rivolta delle studentesse
Capelli a sfiorare le spalle, frangetta, gonna poco sopra il ginocchio, t-shirt con maniche lunghe in pizzo «see-through», vedo non vedo. È un preciso identikit la lista dei requisiti che il settimanale Spa! ha pubblicato col fine di decriptare l’estetica di quelle giovani studentesse che apparterrebbero alla categoria delle facili prede. Fuor di metafora, «yariyasui» (quelle che ci stanno). Linguaggio che nel sensibilissimo Giappone del «metoo» fresco d’adozione - importato alla velocità di un tweet (qui il mezzo di condivisione di gran lunga più diffuso) e ancora meglio metabolizzato (vedi il fragoroso caso della giornalista Shiori Ito, che ha evidenziato l’emarginazione delle donne che denunciano uno stupro) - non è passato inosservato.
Quattro studentesse giapponesi se ne sono accorte, ovviamente non leggendo direttamente la rivista, ma scorrendo come tutti i comuni millennials il pollice sul solito Social. «Quando l’ho letto ho perso la testa!», racconta Kazuna, 21 anni, in tenuta sportiva nella caffetteria dell’Università Icu. «L’ho mostrato a mia madre che però non l’ha preso seriamente, si è fatta una risatina», ecco il gap generazionale spiegato facilmente: «Sono corsa in camera e ho creato una petizione su change.org e due giorni dopo c’erano 35.000 sottoscrizioni».
«Mi sembrava una cosa vecchia di almeno 30 anni!», si riferisce agli anni del post-boom quando volgari trivialità del genere erano ordinario palinsesto anche in tv. Chi certamente non ha sottoscritto l’accusa di sessismo al settimanale è l’inventore della nuova App per invitare le donne a cena dietro pagamento e che poi sulla base della propria esperienza personale ha confezionato il famigerato identikit accompagnato a piena pagina dalla classifica delle yariman seisoku, «puttane iscritte» (sì, siamo a questi livelli) per ogni Università.
È indubbio che qualcosa di penosamente patologico si è insinuato nel rapporto uomo-donna in questo Paese, se i trenta-quarantenni sani con un buon lavoro (lavoratori part-time non potrebbero permetterselo), si danno di gomito alludendo a quanto è «fico» pagare le donne per conversare, aggiungendo pure che se sborsi un extra ti assicuri perfino una notte di fugace carnalità (con tutte le App di incontri gratuite che esistono?).
Adolescenti impacciati
Ma mai come in Giappone tutto deve esser letto sullo sfondo del flusso temporale dei costumi, altrimenti si finisce per farsi sfuggire l’istinto del giudizio sommario. E infatti le gyaranomi, cioè queste studentesse che si pagano l’affitto a fronte di una chiacchierata con giovanotti impacciati e disadattati, non sono poi tanto diverse dalle «kyabajo» che da anni intrattengono impiegati di ogni rango, addebitandogli sul conto fiumi di costosissimo sake. E quest’ultime a loro volta non sono poi altro che una versione delle «maiko-san» (geishe) aggiornate ai nostri tempi meno candidi e sofisticati.
È su questa spessa coltre di formazione a-sentimentale che va misurata anche l’uscita di qualche anno fa dell’ex sindaco di Osaka, Toru Hashimoto, a margine dello stupro di una giovane ragazza: «Gli uomini farebbero bene ad andare di più a prostitute, altrimenti è difficile che possano tenere sotto controllo i propri istinti sessuali». E poi aggiunse, «e se non ci vanno per motivi morali, sappiano che stanno discriminando delle oneste lavoratrici». Il tutto senza neppure il bisogno di avanzare, come è toccato invece a ben altri leader politici, la scusante della chiacchiera da spogliatoio, anche perché la dichiarazione la apparecchiò precisa davanti i microfoni spalancati dei giornalisti.
Nel Paese dove hanno perfino coniato un termine ad hoc per descrivere il fenomeno della prostituzione minorile (come se si trattasse appunto di un qualsiasi «onesto lavoro»), cioè enjo kousai, ovvero il «dating compensativo», tutto ciò non scatena agitazioni sociali, neppure l’ombra di una «Femen».
È consolidata da decenni l’abitudine di uomini maturi di accompagnarsi (a pagamento) con giovani studentesse. Tuffarsi nel variopinto mondo delle sfumate declinazioni di questo fenomeno aiuta a capire di quale irrazionale pulsione ci troviamo a discutere. Non molto tempo fa esisteva a Tokyo un locale dove ragazze minorenni in uniforme di scuola (dunque con minigonna) venivano fatte sedere su dei tatami, mentre praticavano l’antica arte dell’origami. I clienti, 40, 50enni onesti padri di famiglia, pagavano fior di yen per accovacciarsi davanti alle studentesse e sbirciare sotto la gonna.
Ma forse storicizzare diventa perfino un esercizio superfluo: basta allungare la mano sull’ultima copia del settimanale «Spa!» e si scopre una classifica analogamente assurda, come quella dello scandalo internazionale recentemente generato dallo stesso tabloid, ma che al contrario non ha sollevato proteste. Questa fa il ranking delle «shukatsu bitchi«, quelle ragazze che per un’offerta di lavoro farebbero «di tutto». E pare che già in molti si stiano chiedendo se esiste un’App anche per questo.