il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2019
Intervista a Paolo Bonolis
Ore 18 l’appuntamento. Ore 17.59 arriva Paolo Bonolis, strati di lana a proteggerlo, apre la porta del suo appartamento romano: pochi mobili, quelli essenziali, al muro una gigantografia con Walter Bonatti accovacciato sulla punta di un monte (“uno dei miei miti”), libri ovunque, anche García Márquez in lingua originale (“sì, leggo in spagnolo”); tutto è in ordine, con un’eccezione: il tavolo dal salotto invaso da fogli di carta, scritti a penna, “perché non uso il computer e sono impegnato nella stesura di un libro”. Quando parla ama le citazioni, non si perde in digressioni, e se una domanda non la ama del tutto, compare una leggera balbuzia: “Fino a 12 anni i professori neanche mi potevano interrogare, ci mettevo troppo a rispondere”.
Del Paolo Bonolis caciarone, ammiccante, spinto nei termini, resta solo il sorriso.
Vive qui?
No, ci sono per le riunioni, per prendere appunti, e a volte per stare solo e allungarmi sul divano.
Finito lo show, silenzio.
Totalmente zitto, no, altrimenti sarebbe una forma di autismo. In generale sono più pacato rispetto alla tv: la telecamera prevede un atteggiamento anche esasperato, perché trovo divertente esasperare, mentre fuori dagli studi rallento di colpo.
Come i comici…
Sono realmente tranquillo, direi timido, con una vita riservata. Esco pochissimo.
Niente salotti romani.
Non saprei cosa dire, non li conosco, e un po’ mi inquieta questa straordinaria familiarità che hanno tra di loro: mi sentirei uno Stranger in a Strange Land (Straniero in terra straniera, romanzo di Robert Heinlein del 1961).
Si sente romano?
Romano de Roma, no: papà milanese, mamma di Salerno.
È considerato un fuoriclasse.
Ho solo una traiettoria di divertimento che piace anche agli altri.
Si diverte realmente.
Qualche volta ancora sì, e nonostante l’imponente quantità di lavoro, ci salviamo con lo spirito.
Qual è?
Siamo disincantati, ci piace dare un calcio nel sedere all’ipocrisia comportamentale della televisione, lì dove vince la continua affettazione dell’apparire.
Esempio.
L’altra sera si è seduta di fronte a me una donna stravolta da interventi estetici e botulino. La guardo. Le domando: “Lei chi era?”
Politically correct grande nemico.
È la cosmesi ben fatta dell’ipocrisia; poi la moltiplicazione dei social, il commento continuo, l’opinione indiscriminata ti porta quasi ad aver paura di pensare e parlare.
Dicevamo, si diverte meno.
È fisiologico: quello che era affascinante, con gli anni diventa abitudine, consuetudine e cresce la stanchezza fisica. Recupero con maggiore fatica rispetto a vent’anni fa.
Non sente il brivido della telecamera?
Non sento la necessità morbosa di esserci, tanto che tra un paio di anni vorrei fermarmi, perché non sono più contemporaneo.
In cosa?
Parlo un linguaggio analogico in un mondo digitale, non ho più i riferimenti da offrire, quelli che rispondono alle esigenze di questi tempi: non uso il computer, ho un cellulare vecchio, con il quale rispondo e mando al massimo gli sms. (Si ferma un paio di secondi) Sono cresciuto in un’epoca che si avvitava sulle ideologie, oggi si avvita sulle tecnologie.
E le fa paura.
Temo che la tecnologia possa diventare un’ideologia, e mi rendo conto della distanza generazionale attraverso il confronto con i miei figli: in mezzo ci sono delle ere, e non ho più voglia di correre appresso a tutto ciò, mi diverto ogni tanto a condannarlo, o a mettere dai piccoli argini con le persone a cui voglio bene, ma senza condizionare esistenzialmente.
Il suo apice in carriera è “Il senso della vita”, ed è un programma molto politically correct…
Non sono d’accordo, ed è un format di cui avevo bisogno: amo leggere e riflettere, ma ho i limiti di conoscenza, cultura, e capacità intellettuale; con quella trasmissione ho cercato persone da ascoltare, soggetti in grado di schiudere un pensiero rivelatore; un brivido d’intimità in un periodo sociale nel quale l’intimo è quasi cancellato dall’esteriore.
Oramai in tv i protagonisti svelano particolari intimi.
Pensano sia una delle benzine del successo, e capita soprattutto con chi è in difficoltà nel raggiungere l’agognato riflettore; così mettono in piazza qualunque lato della loro esistenza, quando dovrebbero mantenere un po’ di pudore.
Basta che se ne parli.
Mi inquieta parecchio e non avviene solo in tv: sano sempre tante, troppe le persone che quando ti incontrano ti buttano addosso una sacca di fatti propri e di altri.
Non vuole sapere.
Ogni volta penso: “Ma a me, che me ne frega?”.
In quanti si avvicinano a lei per un secondo fine?
Non cerco di capirlo, delle persone mi fido, se poi quello che mi mostrano è un’illusione, allora complimenti, il numero mi è piaciuto, in quel crederci sono stato bene.
È forse il presentatore più pagato.
Li prendo perché ho il mercato che me li dà.
Lineare.
Anni fa avevo un contratto da 7, 8 miliardi, e una giornalista mi disse: “Non prova vergogna per quello che guadagna?” Questa domanda mi provocò notevole fastidio…
Risposta?
“Con me l’azienda fattura intorno ai 175 miliardi l’anno, quindi sono sottopagato”.
A scuola provocava anche i professori?
Non ricordo, ma come dicevo, fino ai 12 anni, non mi hanno potuto interrogare, rispondevo per iscritto; mio padre stesso, quando tentavo di dirgli qualcosa, a un certo punto si rompeva: “Aoh, scrivi”.
Intimidito dalla balbuzia?
Un po’ mi ha chiuso nei confronti dell’esuberanza, mentre il personaggio televisivo maschera quello che sono, e fa emergere solamente ciò che vorrei essere.
Deriso?
Da nessuno, o forse è successo, ma certi atteggiamenti mi entravano da una parte e uscivano dall’altra.
Ogni tanto capita ancora.
Mio figlio ha lo stesso problema, ma è pure un accavallarsi di pensieri, si crea come un ingorgo, e me ne sono accorto quando da giovanissimo ho recitato a teatro, e avevo una sola battuta: “Arrivano le guardie!” Cacchio, la pronunciavo perfettamente, ero così stupito da ripeterla in continuazione.
Tra poco c’è Sanremo, e lei sul palco portò Tyson.
È stato il colpo a effetto di quel Festival, uno che indubbiamente ha commesso delle colpe e ha pagato; poi quando ci parli, ti prende un colpo, non tanto per la muscolatura, piuttosto per una vocina da castrato simile a quella di Luca Laurenti.
Ha intervistato Donato Bilancia…
Prima di quell’incontro, avevo intrapreso un percorso emotivamente impegnativo: volevo capire qual è il momento in cui la parte oscura diventa prevalente, cosa scatta, se è una questione biochimica o altro. Al termine ho chiesto di parlare con Donato Bilancia, uno che fino a un momento prima di uccidere, era passato inosservato.
E…
Quando si è seduto davanti ho visto una pupilla che non si dilatava mai, assenza completa di interazione, come un cyborg che valutava solamente le proprie intenzioni.
Ora un quiz: a una data fondamentale, il suo ricordo. 9 maggio 1978.
La morte di Aldo Moro: avevo 17 anni e non sono mai stato politicamente coinvolto, la mia vita era banale rispetto a quegli anni; la forza ideologica l’ho scoperta dopo.
Non percepiva l’aria…
Sì, ma sfuggivo: giocavo a pallone, poi studiavo, quando potevo viaggiavo.
Dove andava?
Seguivo un amico di mio padre che lavorava per la rivista Mondo sommerso; con lui ho scoperto la Cambogia, il Nord Africa, la valle del Nilo, il Sahara, la Tanzania.
Pagava suo padre?
E chi aveva i soldi? Lui scaricava il burro ai mercati generali, al massimo poteva mandarmi a Coccia di Morto.
11 luglio 1982.
I tre gol alla Germania nella finale dei Mondiali. Lo sport l’ho sempre seguito e in tutte le sue latitudini, quando posso vado allo stadio o alle gare dei miei figli e se ci sono le Olimpiadi, mi commuovo.
Che ragazzo era?
Avevo iniziato da poco la televisione, e nel frattempo studiavo.
Ancora non la riconoscevano per strada…
La fama è arrivata con Bim Bum Bam, in particolare dal secondo anno, quando avevamo iniziato a scriverlo noi, e non Lidia Ravera.
Esautorata?
Nonostante le sue indubbie qualità di scrittrice e giornalista, aveva uno stile un po’ stucchevole, melassoso; ne parlai con i vertici e gli chiesi se potevo sostituirla insieme a Giancarlo Muratori.
A 21 anni contro la Ravera, vuol dire carattere.
Non mi è mai mancato. E poi non sono un attore, non sono in grado di fingere, quello che dico e faccio mi deve appartenere; comunque dalla Rai mi hanno mandato via dopo il primo anno: pensavano avessi un carattere poco addomesticabile.
Ci rimase male?
In realtà puntavo alla carriera diplomatica, per questo studiavo Scienze politiche, volevo continuare a viaggiare.
Non pensava alla tv.
Per niente, sono andato avanti solo perché a un certo punto ha iniziato a rendermi del denaro e con i soldi ho soddisfatto le prime necessità, a partire dalla macchina.
Quale?
Una Dyane rossa da sei cavalli: un’estate ho percorso l’intero perimetro dell’Italia.
8 novembre 1989.
La caduta del Muro: il ventennale l’abbiamo festeggiato nella seconda serata di Sanremo.
La politica era entrata nella sua vita?
Tempo dopo ho scoperto il piacere dell’osservazione storica più della frequentazione.
Tipo?
La rivoluzione hippy o lo psichedelismo e i movimenti musicali in stile peace e love; ancora oggi se vedo Hair di Milos Forman, piango all’ultima scena (quando il pacifista parte per la guerra in Vietnam).
Si identifica.
Quelle suggestioni, quel coinvolgimento, quei cromosomi culturali sono dentro di me e se fossi stato lì, in quel momento, sarei stato uno di loro; a 58 anni, con la famiglia, vado ancora in vacanza a Formentera, un posto diventato commerciale, eppure insisto nel ricordo di quando potevamo stare nudi in spiaggia senza che importasse a nessuno.
23 maggio 1992.
La morte di Falcone. In quel periodo stavo prendendo più coscienza, e quella tragedia è una delle grandi contraddizioni di questo Paese: siamo una nazione di clienti con dei livelli di clientela più fragili e alcuni tremendamente gravosi; la mafia è un livello di clientela altissimo con dentro lo Stato i suoi conniventi e i suoi nemici.
Non ama la politica, però è andato da Renzi alla Leopolda.
Mi sta simpatico; è uno gradevole, intelligente e bizzarro, sicuramente preso da sé, ma quando arrivi a quel livello devi avere un po’ di presunzione; il problema è quando l’io è sovrastato dall’ego. Anche Berlusconi mi sta simpatico.
I due si assomigliano.
Non lo so, può essere (ride).
Sua moglie è criticata sui social per l’aereo privato, le borse e altri ammennicoli.
Lei è più giovane di me, ha tredici anni meno, ed è cresciuta in un’altra dimensione: io con Sandokan… scusi un attimo (squilla il cellulare, risponde, dall’altra parte il silenzio. Bonolis incalza: “Mauro… Mauro… Mauroooo… o parli o vaffanculo…” Altro silenzio. “Ok, hai scelto vaffanculo, vabbè”. Attacca e sorride). È un amico.
Riprendiamo…
Dicevo Sandokan, Tognazzi e Vianello, Il libro Cuore, I ragazzi della via Pal, mentre su mia moglie hanno inciso Dynasty e Falcon Crest.
Abissi.
A un certo punto devi fare un compromesso. Ma è divertente, un po’ come scrivere nel 2019 un libro a penna.
A che punto è della stesura?
Indietro, ma non voglio avere fretta, preferisco godermelo.