Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2019
Mandare al diavolo le élite?
Oggi che si parla molto di popolo, populismo ed élite, mi torna in mente una trasmissione radiofonica di quasi mezzo secolo fa: Chiamate Roma 3131. Fu una vera rivoluzione perché per la prima volta si poteva «chiamare la radio» e parlare in diretta. Anche il più comune e anonimo ascoltatore, senza alcun merito o particolarità distintiva o privilegio, poteva prendere il telefono, fare il numero 3131, parlare col conduttore e essere ascoltato da tutti.
Era il 1969. Avevo 13 anni, e mi capitava di ascoltare la radio certe mattine d’estate, con mia madre che lavorava in casa. Mi piaceva sentire la musica, aspettavo con trepidazione che trasmettessero le mie canzoni preferite, e quando succedeva mi sembrava un segno fortunato della sorte. Invece a un certo punto la mia radio fu invasa da quelle voci estranee, prosaiche, noiose. Di colpo, ascoltare la radio divenne per me una barba infinita.
Prima di allora la radio trasmetteva canzoni, notizie, drammi radiofonici: trasmetteva e basta, in una sua solitudine assoluta e inavvicinabile; era una voce a cui nessuno poteva rivolgersi, che si poteva solo ascoltare. Credo che dovette sembrarci, a un certo punto, una cosa terribile, un errore a cui si doveva quanto prima porre rimedio. Non so come si giunse a questo sentimento colpevole, ma credo che fu una naturale conseguenza del nuovo clima che si era instaurato dal ’68 in poi e che tanto drasticamente cambiò il nostro mondo.
Oggi la radio è quasi esclusivamente fatta dagli ascoltatori che intervengono, a raccontare qualcosa di sé, della propria vita, o dire come la pensano su ogni argomento. Radio, tivù, giornali e social: un sottofondo costante di voci, un brusio composto perlopiù da una retorica comune e generica che si moltiplica, che si avvoltola senza fine su se stessa: Rumori, per dirla con il libro di Attali del 1978.
A me sembra che sia cominciato tutto lì, in radio, con Chiamate Roma 3131. O meglio, è il primo segnale concreto che io ricordi di questa che chiamerei «volontà di compartecipazione», del desiderio, cioè, che ci prese allora e oggi è più che mai vivo, di aprire tutto a tutti, perché non esista più un solo spazio, nemmeno un angolino, che possa sembrare riservato ai pochi, o peggio che mai ai singoli. L’idea insopportabile che sia uno solo a parlare e tutti gli altri condannati al silenzio. Sembrava ingiusto, vagamente dittatoriale. Si iniziò allora a pensare che ascoltare era troppo poco, privilegiava i pochi “parlanti” e condannava gli altri a un ruolo passivo, subordinato.
Anche a scuola. Si cominciò ad “aprire” ai bambini, che dicessero la loro durante le lezioni, qualsiasi cosa in qualsiasi momento. Ci piaceva che “intervenissero”, anche interrompendo la lezione. Sapeva di libertà, estroversione, democrazia. Allo stesso modo si aprì ai genitori, con i Decreti delegati dei primi anni ’70, perché avessero parte diretta nella vita della classe, nella conduzione della scuola. Poi, circa vent’anni fa, si cominciò a dire che far lezione non andava più bene: ormai chiamata «lezione frontale», è oggi additata come l’esempio più esecrabile della scuola del passato, il marchio da cancellare, l’errore di una scuola d’élite. Fino alla recentissima didattica della «classe capovolta», dove nessuno fa più lezione: gli allievi lavorano in gruppo, e gli insegnanti organizzano il lavoro, assistono, controllano che tutto funzioni.
Anche in chiesa. A un certo punto abbiamo preferito che il prete smettesse di parlare latino, e di guardare l’altare dando le spalle ai fedeli. Come abbiamo voluto che l’insegnante la smettesse di sentirsi in cattedra e “scendesse”, così abbiamo voluto un prete di fronte, aperto, trasparente, e che la gente interagisse nella messa, per esempio scambiandosi il segno di pace. Così che tutti avessero la sensazione di partecipare più attivamente, e non si sentissero in qualche modo estromessi dal vivo della funzione.
Allo stesso modo in teatro, spesso chiamiamo il pubblico sul palco a recitare, gli diamo una parte perché non si senta pubblico passivo. Rompiamo la quarta parete e lo convochiamo a contribuire allo spettacolo. È come se pensassimo che non è bello che siano solo gli attori a fare gli attori. Anche nei libri, nei fumetti: chiediamo da anni ai lettori di esser loro a suggerire il prosieguo della trama, l’aggiunta di un personaggio, un finale diverso. Perché non è bello che lo scrittore sia uno solo; è bene che anche i lettori si sentano parte del processo creativo, tutti in qualche modo scrittori, non puri e inerti spettatori dei pochi che hanno il privilegio di inventare.
I lettori che scrivono con lo scrittore. I fedeli che officiano con il prete. Gli studenti che insegnano con l’insegnante. Gli spettatori che recitano con l’attore. I radioascoltatori che conducono con il conduttore…. Sono tutti esempi di uno stesso copione. A un certo punto ci è parso importante che non ci fosse uno solo che dirige, conduce, scrive, crea, recita, insegna. Quell’uno ci sembrava un privilegiato. Ci sembrava… élite.
Piano piano, abbiamo cominciato a smantellare anche i luoghi dove ci pareva che qualcuno o qualcosa emergesse, avesse un ruolo superiore, si distinguesse o, cosa ben peggiore, dominasse qualcosa e qualcuno: per esempio abbiamo allargato il concetto di libreria, così che accanto ai libri si venda anche la pasta, il vino, le matite, i peluches, i computer e le ceramiche dipinte. Abbiamo allargato il concetto di libro a comprendere qualsiasi testo scritto e pubblicato. E abbiamo allargato il concetto stesso di cultura perché avevamo il terrore che la cultura fosse soltanto libri, studio, ricerca, cioè qualcosa che riguardava i pochi. Abbiamo declassato a inutile ogni sapere, e eletto unico sapere utile l’unico che fosse accessibile a tutti: il web.
Il bello è che sia stata l’élite ad aver fatto tutto questo.Ha cominciato tanti anni fa a autodenunciarsi, e autodistruggersi. E forse il fenomeno di quel che oggi chiamiamo populismo può leggersi (anche) così: il risultato del senso di colpa delle élite. Parlo delle élite culturali, soprattutto, ovvero di coloro, persone ma anche enti, che detenevano non dico il potere ma almeno una notevole autorevolezza: radio e tivù, insegnanti, artisti, studiosi, librerie, case editrici, intellettuali, scrittori, teatri….
È l’élite a non sopportare di essere élite. Ha una paura fottuta di essere élite e si spende il più possibile per non esserlo, e nemmeno sembrarlo. Ha il terrore dell’esclusione: non di essere lei esclusa, ma di escludere. Non ammettere, non condividere, non inglobare, non accogliere… Vuole che siano tutti non solo uguali, ma protagonisti: nella scuola, a teatro, in radio, in chiesa, in tivù e anche al governo.
Per questo l’élite oggi è molto grata alla tecnologia. Pensa che il web sia stata la più grande fortuna, lo strumento massimo di quella rivoluzione democratica che finalmente dà voce al popolo e contribuirà a sconfiggere le disuguaglianze. Ed è felice che, grazie ai social, il popolo abbia accesso diretto anche al governo delle città e dello Stato.
Sì, ogni tanto l’élite lamenta un certo dilagare di volgarità, soprattutto nel linguaggio, fors’anche una certa ineleganza nel vestire, e certi toni un po’ fascisteggianti… Ma sono solo i postumi di un aristocratismo difficile da guarire, ancora un po’ di pazienza e le passerà.
Bisognerebbe leggere Pascal Bruckner. O, avendolo letto, ricordare (e citare) di più i suoi libri. Per esempio Il singhiozzo dell’uomo bianco (1983, Guanda 2008), o La tirannia della penitenza (2006, Guanda 2007). Lì vien detto splendidamente che l’Occidente è affetto da sensi di colpa almeno dal secondo dopoguerra in poi, che siamo fermi alla vecchia dottrina del peccato originale, e che dalla caduta del muro di Berlino l’Europa «si macera nella vergogna di sé». «In terra giudaico-cristiana non esiste miglior sprone del senso di colpa (…). Come diceva Nietzsche in nome dell’umanità le ideologie laiche non hanno fatto altro che sovracristianizzare il cristianesimo e potenziarne il messaggio».
Il mea culpa delle élite di fronte ai populismi insorgenti è dunque il solito masochistico refrain dei privilegiati che desiderano abbassarsi a “capire” il popolo, ne giustificano le intemperanze in nome di una rivoluzione santa, dovuta e condivisa, e riprendono la consueta autoflagellazione in odore di martirio. Tutto molto conformistico.
Eppure sembrerebbe chiaro che qualcuno deve dir messa, qualcuno deve fare lezione, qualcuno deve recitare Amleto, qualcuno deve scrivere libri. E quel qualcuno normalmente deve essere un singolo. Quel che le élite intellettuali non sopportano è proprio questa necessità del singolo, questa inevitabilità che certe funzioni siano demandate a singoli, e possano non essere allargabili ai tutti. È il singolo stesso a sentirsi a disagio, a vergognarsi della sua «singolarità», che gli sembra subito maledettamente élitaria, non democratica. Quindi colpevolmente chiede scusa e si adopera perché il suo ruolo sia condiviso e partecipato dalla più grande moltitudine possibile.
Eppure, ripeto, dovrebbe essere chiaro. E ci è chiaro, ma soltanto in ambito sanitario, sembrerebbe. Lì ci appare lampante che il chirurgo debba essere lasciato solo, ovvero con la sua équipe di altrettanti chirurghi ma certamente non affiancato dal popolo dei pazienti. Sarebbe assurdo che il paziente collaborasse e intervenisse alla propria operazione per sentirsi meno passivo. Eppure, se ci pensiamo, è proprio quel che capita nell’ambito dell’istruzione: lì non abbiamo la minima remora a pensare che accanto all’insegnante (anzi, meglio, al suo posto) ci debba essere l’allievo che partecipa alla sua propria educazione…
Dovremmo accettare che una certa funzione non possa che essere svolta dai pochi. E, soprattutto, i pochi dovrebbero accettare di essere soli a svolgere la loro funzione, e non convocare sempre le masse accanto a sé: per il bene di tutti. Certamente dovremmo adoperarci perché tutti (qui sì davvero tutti!) possano diventare quei pochi, perché tutti cioè abbiano la via spianata, economicamente e culturalmente, per accedere a quei pochi posti dove si svolgono funzioni ai livelli più alti.
È bello e giusto pensare che tutti possano diventare chirurghi. Ma pensare che tutti debbano affiancare il chirurgo, anche i pazienti stessi, anche coloro che non hanno alcuna competenza, soltanto per mitigare il senso di colpa dell’uomo bianco perennemente singhiozzante, questo no, sarebbe pura follia.
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