Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2019
Contro la cucina in tv
La presenza di trasmissioni dedicate alla cucina nei programmi televisivi non è certo nuova, e ancor di recente è stata ricordata nel suo sviluppo da un documentario di Rai 3: il quale non poteva evitare, sia pure con cautela e per cenni, di mettere in evidenza, se non un peggioramento, un progressivo spostamento di interessi e il diverso rilievo di certe presenze. All’attiva partecipazione iniziale di personalità come Mario Soldati, poi Luigi Veronelli – uomini di cultura e di esperienza -, di attrici come Ave Ninchi e al preciso impegno sui temi delle tradizioni gastronomiche delle nostre regioni, si sono venute sostituendo, soprattutto dagli anni duemila, rubriche ove prevalgono la messa in scena, i discorsi salottieri, le grida sportive, lasciando in secondo piano, quasi occasione o pretesto, la serietà e il rigore del lavoro ai fornelli, il gusto del ben cucinare e del buon mangiare come espressioni di grandi tradizioni culturali.
Oggi sulle varie reti televisive le trasmissioni dedicate alla gastronomia (sempre più invadenti) seguono tre linee principali: gare fra ristoranti, fra cuochi rappresentanti delle varie regioni italiane, lezioni di cucina. Queste ultime hanno un carattere occasionale e il loro valore dipende dalla serietà degli interlocutori, a volte chef rigorosi come quello che ha insegnato, senza sbavature e “rivisitazioni”, la preparazione della pasta con le sarde, altre volte fantasiosi cuochi domestici; le gare invece – collocate in orari di buon ascolto – rispondono a uno schema e a una regia ben definita come altri talk show. È in queste gare, le più seguite, che si manifesta di fatto un notevole disinteresse per la serietà della cucina, per il rigore di un lavoro di grande specializzazione che richiede tempo e impegno, conoscenza e rispetto di regole tradizionali. Prevale, in queste gare, la fretta e l’improvvisazione, anzi ne sono l’apologia, invece di insegnare – come premessa – il tempo che deve essere dedicato, per esempio, ai battuti e ai soffritti, alle salse e alle marinate. Sicché, senza tenere alcun conto dei diversi tempi di cottura, si concedono venti minuti tanto per cucinare delle capesante quanto per un rollè di cappone, trenta minuti mediamente per ogni gara, più di rado quarantacinque che son comunque inutili per cuocere una trippa al punto giusto, messa a confronto con un fegato di vitello che richiede come è noto un brevissimo tempo di cottura.
Se poi vi è un giudice di gara il quale opportunamente osservi che per un purè di fagioli è da usare un setaccio e non un frullatore, la considerazione passa del tutto inosservata, tanto per il cuoco quanto per il conduttore, forse perché del setaccio non hanno mai fatto uso e neppure sanno se è ancora presente fra i moderni attrezzi di cucina.
Del resto sono sempre ignorati i fondamenti stessi della gastronomia: assente ogni discorso sulle salse che della cucina sono la condizione (salsa spagnola, vellutata, béchamel, maionese), come ignorati i roux, i fumetti, le marinate. Non meraviglia se ormai anche il lessico è snaturato dall’ignoranza o dalla moda: non solo campagne pubblicitarie diffondono l’uso di una “maionese vegetale” senza uova, ma anche un cuoco di queste rubriche televisive non esita ad accostare a un astice alla catalana una “maionese di fagioli”.
Insieme alla fretta, apologia dell’improvvisazione: come quando, a sorpresa, si richiede al cuoco di una regione di improvvisare, nel giro di poche decine di minuti, un piatto secondo le tradizioni del proprio territorio ma per cucinare qualcosa che a quel territorio non appartiene. Come chiedere a un cuoco piemontese, specialista in ravioli del plin, fritti e bolliti, di preparare un piatto di tartufi di mare; o a un calabrese di manipolare in gran fretta un bel taglio di chianina, quando forse nella sua regione neppure il termine è in uso. Si arriva così a celebrare l’improvvisazione come segno di “creatività” che si manifesterebbe, per esempio, nella fragola posta ad ornamento (o contorno?) di una trancia di salmone o nel frutto esotico su un filetto di bue che piace per il suo colore e la sua inutilità.
Stupisce anche, persino in gare che nel titolo si richiamano al nostro Paese, l’assoluta marginalità, più spesso assenza, della cucina tradizionale italiana, a cominciare dai primi – le paste – che costituiscono il vertice e la caratteristica stessa della nostra tradizione gastronomica. E quando, quasi per caso, si evocano le tagliatelle all’uovo emiliane, se ne richiede la fattura e l’utilizzo a un cuoco di altra regione che di quelle tagliatelle non ha alcuna esperienza, mentre è capace di preparare paste di diversa fattura e pari eccellenza; più frequenti sono i piatti senza storia che vogliono essere espressione di quella creatività di cui si è già detto. Sembra che la nostra grande cucina – tutta regionale – interessi solo i camionisti alle cui scelte è dedicata una rubrica: non si sa se per insinuare che essa richieda un buon appetito e un lavoro particolarmente gravoso per esser digerita (sarebbe un’evidente idiozia) o per salvare quello che resta della nostra grande tradizione tutta legata ai territori.
V’è poi un altro aspetto delle varie gare che ne confermano il carattere approssimativo e distratto: la totale mancanza di attenzione alla temperatura di servizio, tanto delle pietanze preparate quanti dei piatti sulle quali vengono servite. Anzi, quanto ai piatti, essi sono sempre rigorosamente freddi perché presi dagli scaffali e non da scaldapiatti: sicché una salsa si raffredda subito e si raggruma, cambiando gusto e sapore e rendendo quindi priva di significato anche la relativa pietanza cui si accompagna, egualmente raffreddata sul piatto. Un filetto ai ferri o una frittura freddi sono da rimandare sempre al mittente, così come una qualunque pietanza calda servita su piatti freddi; se si usa porzionare a tavola, essenziale lo scaldavivande. A questo non sembrano attenti neppure i giudici di gara, che spesso – prima ancora di provare il piatto e passarlo ai vicini colleghi – discutono sul piatto stesso, senza alcuna attenzione al suo progressivo raffreddamento, ammesso che la pietanza stessa sia arrivata calda al loro tavolo. Si ha del resto l’impressione che delle pietanze servite i giudici si interessino marginalmente: infatti in una gara fra ristoranti, quello che si è effettivamente mangiato (menu) è solo una di quattro voci da valutare; le altre sono location (sic!), servizio, conto.
Questo significa che un ristorante può avere una bella vista (che non si mangia), un elegante tovagliato (non commestibile), un conto corretto, ma presentare pietanze immangiabili: esso potrebbe ottenere un punteggio nel complesso più alto di un onesto ristorante, senza vista e di modesta presentazione, ma con un’eccellente cucina. E la cantina? Anche questa del tutto assente nelle gare fra ristoranti: ma di questa e altre piacevolezze a una prossima volta.