Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2019
La corsa all’Artico è un boomerang
I primi raggi di sole sono appena tornati a inondare d’arancio e oro il mare di Tromsø. Durante alcuni istanti spengono le lucine delle gru che torreggiano sulla minuta capitale dell’Artico europeo, per due mesi immersa nella notte artica. Da qualche anno grossi e alti parallelepipedi prendono il posto delle casette di legno verniciato di bianco e i cantieri sono aperti un po’ ovunque.
Nei disadorni spazi di cemento e neve ghiacciata, alla destra del porto che vide partire gli esploratori polari, sono cresciuti centri commerciali e un enorme terminal per deglutire immediatamente in un caldo tunnel di vetrine i passeggeri del traghetto Hurtigruten e delle gigantesche crociere. Queste, gironzolando in una delle regioni più delicate al mondo con il loro carico di migliaia di turisti col perverso desiderio di toccare l’intoccato e i loro serbatoi pieni di carburante, atterriscono i ricercatori riunitisi nei giorni scorsi ad Arctic frontiers, il più grande convegno per discutere dei fatti dell’Artico.
Ricercatori che sono sempre meno rispetto a politici e affaristi impegnati nella corsa all’eldorado ghiacciato. Sciogliendosi, la calotta polare lascia i suoi tesori indifesi. I fondali si pensa contengano le maggiori riserve di idrocarburi del pianeta, la banchisa nasconde inquantificabili banchi di pesci e sulle terre emerse ma anche sotto l’oceano, a tremila metri di profondità, si trovano minerali sempre più richiesti. Tanto che la Norvegia ha prontamente istituito il Forum norvegese per i minerali marini, un consorzio tra industrie, università e altre organizzazioni per capire come grattare via “in modo sostenibile” queste risorse, lasciando attonito l’oceanografo Peter Winsor, direttore dell’Arctic Program del Wwf, che ha fatto notare come quello artico sia un ecosistema che fonda la sua catena alimentare su un’ampia proporzione di organismi bentonici (del fondale).
Non minori critiche sono state rivolte al fatto che la Norvegia, pur particolarmente virtuosa nella sua sempre maggiore quota di consumo di energie rinnovabili, ha appena concesso il più alto numero di licenze per l’estrazione di idrocarburi da quando, 50 anni fa, scoprì il petrolio nelle sue acque lasciandosi alle spalle la miseria. Sono state 83 «di cui 25 in aree ecologicamente molto vulnerabili», ha osservato Winsor, sottolineando come l’ecosistema Artico sia già in condizioni di grandissimo stress a causa del riscaldamento climatico che qui è doppio rispetto alle nostre latitudini.
«Non basta alimentare le piattaforme per l’estrazione di idrocarburi con energia idroelettrica» ha detto sarcastico l’ecologo Martin Sommerkorn, responsabile della Conservazione per l’Arctic program del Wwf mostrando come l’ipocrisia di certi discorsi, compresi quelli secondo i quali sarebbe necessario pescare il prelibato pesce polare per alleviare la fame nel mondo, abbia ormai raggiunto livelli grotteschi. Non c’è solo il cosiddetto «paradosso artico» per cui lo scioglimento dei ghiacci rende più accessibili giacimenti di idrocarburi destinati a accelerare ancora il riscaldamento: ogni mossa che preveda l’autorizzazione di nuove estrazioni – come del resto quelle all’esame del parlamento italiano – ha dell’assurdo da quando, lo scorso ottobre, l’Ipcc ha reso noto il report «Global Warming of 1.5 ºC». Una valutazione degli effetti che avrebbe un riscaldamento climatico di 1,5 gradi centigradi rispetto ai valori preindustriali che mostra che se nei prossimi 20-30 anni si riesce a portare a zero le emissioni sarà probabilmente possibile non superare questa soglia dove i danni sarebbero sì elevati – in particolar modo per l’Artico e per le comunità costiere – ma decisamente meno gravi rispetto a quelli devastanti provocati da un riscaldamento di 2°C.
Che il re è nudo lo ha spiegato bene un professore di geografia fisica di Oxford, Myles Allen, che ha anche fatto parte del gruppo di ricercatori che ha redatto il suddetto rapporto. Allen ha spiegato come lo studio mostri che «abbiamo già abbastanza risorse energetiche fossili per portarci ben oltre il riscaldamento di 1,5°C». Significa che «se davvero abbiamo l’intenzione di restare sotto questa soglia, come affermato dalla Norvegia e da Equinor (società energetica che con i suoi 29mila dipendenti è la più grossa impresa del Paese,ndr), le possibilità sono solo due: o si smette immediatamente di cercare e sfruttare nuovi giacimenti o ci si impegna a togliere dall’atmosfera una quantità di biossido di carbonio equivalente a quella che queste fonti rilasceranno». Allen ritiene che la seconda ipotesi sia di più facile realizzazione, tanto più che le tecnologie per il sequestro del biossido di carbonio ci sono, come, su sua sollecitazione, ha ammesso anche Siri Espedal Kindem, senior vice president operations north di Equinor. «La Norvegia e Equinor sono in una posizione unica per sviluppare le competenze per applicare su larga scala le tecnologie per il sequestro del biossido di carbonio – ha aggiunto Allen -. Facendolo avrebbero un vantaggio competitivo prezioso in un mondo che dovrà ridurre le emissioni e porterebbero a zero il rischio climatico nei loro assets».
Eloquente, Allen ha affermato che «è troppo semplice dire che il problema è di chi brucia gli idrocarburi e non di chi gli estrae, quando oltretutto si è nella posizione più semplice per risolverlo». Secondo il ricercatore bisognerebbe seguire l’esempio dell’Australia: quando è stato scoperto il giacimento Gorgon, che avrebbe rappresentato la maggior fonte di emissioni dell’emisfero australe, ne ha autorizzato lo sfruttamento solo a patto che fosse sequestrata una quantità di carbonio equivalente a quella estratta. «Un ingegnere impiegato nella compagnia petrolifera mi ha spiegato che ci hanno pensato sopra cinque minuti e poi hanno detto sì. I mezzi per farlo ci sono, quel che manca è la volontà politica!» ha aggiunto Allen.
Il re è scandalosamente nudo: lo mostrano persino le valutazioni di carattere economico. Due anni fa infatti, proprio ad Arctic frontiers, Connie Hedegaard nella veste di consigliera del governo norvegese parlò di un rapporto appena consegnato al neoeletto esecutivo conservatore che suggeriva di non trascinare il Paese in un mercato rischioso come quello dei combustibili fossili artici: investire oggi – come fa Oslo, direttamente e indirettamente visto che le società possono dedurre dalle tasse l’80% dei costi di esplorazione – «vuol dire dover ipotizzare impianti funzionanti fino al 2050, ed è un grande azzardo pensare che saranno competitivi fino ad allora» affermò Hedegaard spiegando che il 78% degli introiti dei norvegesi viene dal settore estrattivo.
Alla domanda del Sole 24 Ore al ministro norvegese per il clima Ola Elvestuen su quali fossero state le valutazioni del governo su tale rapporto, questo ha risposto «di essere consapevole del rischio e che c’è un nuovo studio che va nella stessa direzione, al momento sottoposto a una consultazione pubblica». Non ha voluto anticipare l’orientamento dell’esecutivo limitandosi a dire che «ha molto a cuore uno sviluppo sostenibile». Sostenibile è una parola che a Arctic frontiers ricercatori, attivisti e rappresentanti dei popoli indigeni usano con ironia.
Il mare di Barents è troppo caldo, si sta perdendo la stratificazione e questo – ha mostrato la ricercatrice Sigrid Lind – è un altro di quei pericolosi processi non lineari che si autoalimentano accelerando il riscaldamento climatico, la cui progressione finisce sempre per essere sottostimata. Anche il fatto che ora pulluli di merluzzo (mai così alto il pescato) non è un fenomeno destinato a durare, uno studio dell’Arctic monitoring and assessment programme ha mostrato che con l’aumento della temperatura questo pesce potrebbe scomparire. Come stanno scomparendo, più a ovest, i caribù che – ha spiegato il ricercatore canadese Ken Coates – hanno interrotto la migrazione, con drammatiche conseguenze per gli inuit, cui manca anche il ghiaccio sotto ai piedi a causa dell’infido scioglimento della banchisa. SmartIce, un pluripremiato progetto senza scopo di lucro, li sta dotando di sensori per conoscere lo spessore del ghiaccio: gli incidenti sono raddoppiati, in un clima sconvolto serve a ben poco la millenaria esperienza, i loro 42 termini diversi per descrivere il ghiaccio marino.
Più a Est, in un Artico sempre più militarizzato e incurante, lo sviluppo procede a velocità di crociera: «ci stiamo dotando di cinque rompighiaccio nucleari e tre a gas naturale capaci di spezzare lastroni spessi due metri a una velocità di 8 nodi» ha affermato orgoglioso Vyacheslav V. Ruksha, a capo del direttorato russo per la Northern Sea Route, il mitico passaggio a Nord Est che comincia a essere libero dai ghiacci (per due mesi la scorsa estate) e che riduce il tragitto dalla Cina all’Europa del 30-40%: il tragitto dura 25-30 giorni. Su questa rotta nel 2018 sono state trasportate 18 milioni di tonnellate di combustibili fossili e minerali e il presidente Vladimir Putin ha deciso che nel 2024 dovranno salire a 80 milioni.