Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2019
A tavola con Alberto Bombassei
«Oggi c’è un grande entusiasmo per l’auto elettrica. Nessuno, però, considera il suo impatto sociale. In Europa, se smettessimo di produrre macchine a gasolio o a benzina e facessimo soltanto più auto elettriche perderemmo un lavoratore su tre. Compri il motore, compri la batteria e il 60% del valore dell’auto ce l’hai. Ma un milione di europei non avrebbe più una occupazione».
Alberto Bombassei ed io siamo da Vittorio, il ristorante tre stelle Michelin di Brusaporto. Quel che resta della vecchia borghesia del Novecento di Bergamo, lasciate le fabbriche per dedicarsi agli investimenti finanziari o alla rendita, sfiora qui – quasi senza incontrarla – la nuova classe dirigente della manifattura concepita negli ’70 e ’80 e sviluppatasi nei vent’anni, oggi tanto maledetti, della globalizzazione. La cucina è tradizionale, elitaria e non ancora condizionata dalla plebe televisiva. E, allora, assaggiamoli lo gnocchetto soffice, le chips di pane croccante verbena e pancetta croccante e la crema di zucca aromatizzata agli agrumi.
Bombassei, 78 anni, ha vissuto nella sua traiettoria la storia dell’industria e della società nazionale e continentale. E, oggi, avverte il pericolo di una tendenza per il futuro che non solo va a svantaggio dell’Europa e della sua manifattura, ma che viene perfino – come in un desiderio di autodissoluzione – coccolata e vezzeggiata, accolta e favorita – fra Berlino e Bruxelles, Roma e Parigi – da politici che danno sempre ragione ai sostenitori del greentech, da burocrati nazionali e comunitari inconsapevoli delle regole minime di funzionamento del modello produttivo europeo e dalle compagnie del business elettrico che, anche legittimamente, coltivano i loro interessi.
Lui non ha nessun impulso anti-moderno. Mentre mangiamo il tartufo al foie gras, con cuore di lampone e cioccolato, mette in dubbio – con la logica semplice ed efficace del metalmeccanico, «perché io sono un metalmeccanico» – la dinamica fra la regolazione dei mercati e il tessuto industriale sottostante: «L’Europa ha inventato il diesel. In Germania, in Francia e in Italia è stata costruita negli ultimi sessant’anni questa specializzazione produttiva. Come è possibile che non ci si renda conto che, nelle loro ultime versioni, i motori a gasolio inquinano, complessivamente, meno di quelli ibridi? Nessuno contrasta le lobby dell’elettrico, formate soprattutto da chi produce e da chi distribuisce elettricità. In Germania, perfino i Länder tedeschi promuovono regole sempre più restrittive per il diesel. In Italia, la misura governativa dell’ecobonus, al di là della sua rimodulazione finale, è fondata sulla applicazione degli stessi principi, che non tengono conto né del reale impatto ambientale dei motori di ultima generazione né dell’approvvigionamento di elettricità dalla rete né dello smaltimento delle batterie».
Non è solo una questione di equilibri interni. È anche un tema di equilibri internazionali. «È sempre più efficace la dichiarazione di guerra gentile della Cina per la primazia nell’elettrico. Primazia che, poi, si traduce nell’influenza esercitata da Pechino sui Paesi del Terzo Mondo dove si trovano le materie prime con cui produrre motori e batterie», dice Bombassei, presidente della Fondazione Italia Cina, mentre affrontiamo lui il risotto alle castagne, pancia di maialino e riduzione di moscato di Scanzo e io uno gnocchetto con ricotta e patate e cuore di fonduta più burro fuso, parmigiano e tartufo bianco.
C’è il contesto regolatorio. E ci sono le singole imprese: «Nell’industria dell’auto non è mai successo nulla di così radicale. Tutti abbiamo sbagliato. Nessuno di noi ha pensato che potesse esserci una simile accelerazione. Senza questa rapidità, in dieci anni nelle aziende tradizionali saremmo stati pronti. Ma, di tempo, non ce n’è». Brembo, per incrementare la sua componente tecnologica nell’elettrico, ha preso in considerazione l’acquisizione di Magneti Marelli, poi ceduta a una valutazione molto alta da Fca a Calsonic Kansei. «Alla fine abbiamo rinunciato non solo per il prezzo, ma anche perché abbiamo ritenuto che la componente puramente elettrica di Magneti Marelli non fosse sufficiente per i nostri obiettivi. Adesso stiamo guardando ad altri dossier. Anche se, in questo momento, le quotazioni delle aziende sono molto alte».
Nella attuale caoticità, è l’intera filiera dell’auto europea ad essere in fibrillazione. Bombassei si ferma, prima di passare al secondo, una guancetta di vitello con crema di patate per entrambi, e prima di bere un mezzo bicchiere di Grignolino del Monferrato Casalese Vigne Vecchie Bricco del Bosco Accornero del 2014. «Noi collaboriamo con tutti i grandi gruppi tedeschi, predisponendo i freni di auto che usciranno non prima di cinque anni. Una delle tre case automobilistiche tedesche ha in via di preparazione 30 modelli, fra ibrido ed elettrico puro. I tedeschi investono investono investono, assumono assumono assumono. Ho però qualche volta l’impressione che quasi gli manchi il fiato: sono spinti a occupare tutti gli spazi possibili, non sapendo che cosa sarà del mercato fra cinque, dieci, vent’anni».
La concorrenza sta bruciando capitali. E il mutamento tecnologico sta producendo qualcosa di simile a uno sbalestramento psicologico e a un principio di disarticolazione identitaria. Per la prima volta, dunque, nella manifattura mondiale si sta costruendo un futuro in cui l’Europa non è più centrale. Di questa Europa delle fabbriche – di questa Italia delle fabbriche – Bombassei è un protagonista e un testimone privilegiato. Il padre Emilio era di Venezia, la madre Rina di Padova: «La mia famiglia si trasferì ad Alzano Lombardo dove mio padre, ragioniere, era direttore di una azienda meccanica, la Omar. L’Italia degli anni 50 era povera: perfino noi faticavamo ad arrivare alla fine del mese, mia madre risparmiava su tutto, dai vestiti in giù. Poi mio padre è diventato consulente di una ditta di Lumezzane, la Saleri Italo, brava gente della Val Trompia, lavoratori indefessi, cattolici genuini. Fornivano alla Innocenti i rubinetti montati sui miscelatori della Lambretta. Io e mio padre partivamo la mattina presto sulla Topolino color caffellatte e andavamo alla Innocenti di Lambrate: giganteschi capannoni industriali, decine di migliaia di operai in tuta, la nebbia fittissima e le ciminiere ovunque».
Bombassei ha vissuto l’Italia dell’industrializzazione, che è stata costruita pezzo per pezzo da periti meccanici per cui lo studio era matto e disperatissimo: «Il quarto e il quinto anno di istituto tecnico, all’Esperia di Bergamo, mi alzavo tutte le mattine alle quattro per studiare», ricorda mentre ci portano del pecorino. Poco dopo il diploma, lui e il fratello Sergio – di due anni più grande, perito elettrico –, con il padre Emilio e lo zio Italo, affittano una stalla dal Conte Agliardi, signore di queste terre sospese fra Alessandro Manzoni ed Ermanno Olmi, e aprono la prima azienda: i quattro Bombassei, tre dipendenti, una fresa, un trapano e un tornio.
Bombassei non indugia nella nostalgia. Va dritto al punto. Ha gli occhi chiari e il naso affilato. Ha l’entusiasmo della gente di Vicenza – è nato lì – senza che questo tracimi. Ha l’affilatezza dei bergamaschi – qui vive e lavora da più di settanta anni – senza averne le durezze: «Non sono sicuro che, oggi, sarebbe possibile fare quello che abbiamo fatto partendo quasi da zero io, mio fratello, mio padre e mio zio. Almeno, non sarebbe più possibile farlo in Italia e, forse, in Europa».
La dimensione italiana a lungo chiusa e ostile («a Torino, alla Fiat, negli anni 70 non riuscivo nemmeno a farmi ricevere, mi sembrava una fortezza dove non sarei mai entrato») si intreccia con la dimensione europea, dura ma aperta: «La vera svolta per noi è avvenuta, allora, con la Germania. La Porsche, che oggi produce 270mila autovetture, ne faceva seimila: ricordo la qualità eccelsa dei tecnici e degli ingegneri, la passione era pari alla competenza e alla umiltà tecnica, discutevamo per ore su un particolare. La Bmw iniziò a darci commesse sempre maggiori. Per rispettarle comprammo macchinari e assumemmo personale: avevamo pacchi alti così di cambiali e io, certe sere, facevo il giro dei parroci della Val Brembana e della Val Seriana per farmi segnalare i ragazzi più bravi e volenterosi».
Alberto Bombassei, ammesso negli Stati Uniti nella Automotive Hall of Fame di Detroit, passa in Europa per un filotedesco. La prospettiva dell’Industria 4.0 – nella cultura industriale e nelle politiche industriali – è nata in Germania e, in Italia, si è diffusa anche grazie alla sua attività in Parlamento. Una critica rivolta all’edificio europeo – esacerbata dai populisti e dai no euro, ma condivisa in forme meno drastiche anche da molti filoeuropeisti – è di essere stato costruito secondo una architettura istituzionale, giuridica ed economica tutta a favore dei tedeschi. Ci portano un carrello dei dolci e delle praline che, per quantità straboccante e colori, sembra uscito dal romanzo La fabbrica di Cioccolata di Roald Dahl: «Come faccio a dire di no? Sono goloso», sorride Bombassei. Che, poi, al caffè, torna con il pensiero all’auto elettrica mettendo le cose una fila in fila all’altra, con la semplicità e l’efficacia del metalmeccanico: «Allora perché, se l’industria europea è incardinata sull’industria tedesca e se l’industria tedesca è incentrata sull’auto e se l’industria dell’auto è basata sul diesel, l’Unione europea non ha fatto nulla per difenderla rispetto all’elettrico? Ancora una volta, l’Europa si dimostra un gigante industriale e un nano politico».