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 2019  gennaio 27 Domenica calendario

L’autonomia di Veneto, Lombardia ed Emilia

ROMA Sarà vero che dietro l’autonomia regionale che il governo si appresta a riconoscere a Veneto, Lombardia e in tono minore all’Emilia Romagna, si nasconde la “secessione dei ricchi” denunciata dalla petizione di quindicimila cittadini, tra cui molti economisti e giuristi? Si pongono davvero le basi per una divisione istituzionalizzata tra italiani di serie A e di serie B? Stando alle dichiarazioni dell’esecutivo, non sembrerebbe: ci viene promesso infatti che i valori della solidarietà nazionale non saranno intaccati, che in quelle regioni non vi saranno aggravi di spese da finanziare a scapito del resto d’Italia. In altre parole, sembra che il passaggio di competenze dallo Stato alle Regioni, consentito dalla Costituzione (Veneto e Lombardia ne chiedono 23, l’Emilia Romagna 15) possa avvenire semplicemente trasformando spese dello Stato in spese regionali, senza pagare un euro in più. In realtà le cose non sono così semplici. Il progetto che vedrà la luce a metà febbraio, a cominciare da quello per il Veneto, prevede infatti che dopo il primo anno (ed entro i successivi cinque) i fabbisogni di spesa per le nuove competenze regionali vengano legati al gettito fiscale. E quindi saranno tanto più alti quanto più elevato è il gettito di quella regione. In altre parole, il principio che sta per passare è questo: se sei un cittadino abbiente e quindi paghi più tasse, hai diritto a più spesa pubblica. Da finanziare come? Non con un aumento fiscale a carico della Regione, ma con una maggiore “compartecipazione al gettito di uno o più tributi erariali”. Ossia si consente a quella Regione di ritagliarsi una fetta più grande della torta complessiva. A scapito quindi del resto del Paese. Si creano così due distorsioni che i firmatari della petizione ritengono incostituzionali. La prima è che si riconoscono ai cittadini più ricchi più diritti al welfare. La seconda è che queste spese aggiuntive per le regioni più ricche peseranno sul resto del Paese. Per di più, tutto questo si verificherà senza che siano definiti i livelli essenziali delle prestazioni sociali (i Lep) da assicurare omogeneamente in tutta Italia, come prescrive una vecchia legge mai rispettata. Come questi criteri autonomistici saranno concretamente applicati, possiamo capirlo fin d’ora dal modo in cui viene affrontato il tema dell’istruzione nelle trattative con Veneto e Lombardia. Il governo sembra infatti orientato ad accettare, sia pure gradualmente, la “regionalizzazione” della scuola, a cominciare dal personale, con contratti collettivi regionali. Altrettanto viene previsto per i “fondi statali all’università”. L’obiettivo non è tanto e non è solo quello di introdurre istanze regionalistiche nell’organizzazione e nella stessa didattica, ma soprattutto quello di aumentare lo stipendio dei propri insegnanti. “Chi insegna in una scuola al centro di Milano o di Treviso – spiega l’economista Gianfranco Viesti, promotore della petizione – potrebbe essere pagato di più di chi lavora, con difficoltà molto maggiori, nelle periferie di Roma o di Napoli, in base al principio che i suoi studenti sono più ricchi”. E inoltre chi impedirà che si introduca il criterio della residenza per accedere ai ruoli, o che vengano imposti limiti e condizioni alla mobilità tra una regione e l’altra? È evidente che lo scenario non è più quello di un semplice trasferimento di spese dallo Stato alle Regioni, nel segno di una maggiore efficienza e vicinanza alle esigenze della popolazione. Se fosse così, non sarebbe un dramma. Due economisti del Cnr, Andrea Filippetti e Fabrizio Tuzi, hanno stimato che per le prime cinque competenze chieste dalle tre Regioni (salute, lavoro, ambiente, attività internazionale e istruzione senza il trasferimento del personale) il costo sarebbe di soli 1,2 miliardi. Certo, se si includesse il personale scolastico, il costo salirebbe di altri 10 miliardi. E forse raddoppierebbe considerando il totale delle competenze da trasferire. Ma si potrebbe obiettare che sono pur sempre spese che lo Stato non pagherebbe più perché le accollerebbe alle Regioni. In tal caso sarebbe giusto che queste spese fossero finanziate trattenendo una quota maggiore di entrate fiscali. Si è visto tuttavia che gli autonomisti non si accontentano affatto di questo travaso finanziario. E in nome di una capacità fiscale maggiore, pretendono che quelle spese aumentino e siano finanziate trattenendo sul territorio una fetta maggiore di tasse nazionali. Rientra così dalla finestra un discorso che sembrava accantonato: quello del residuo fiscale. Tutto nasce dal fatto che le tre regioni pagano di tasse più di quanto ricevono come spesa pubblica, e questo avanzo viene di fatto trasferito alle regioni che presentano invece la situazione inversa, a cominciare dal Sud. È il frutto delle politiche che seguono il principio della solidarietà. Fino a qualche mese fa Veneto e Lombardia avevano sfidato apertamente questo principio (che a loro giudizio nasconde non di rado l’inefficienza di altre Regioni) battendosi per trattenere sul proprio territorio il grosso del gettito fiscale. Il Veneto aveva addirittura chiesto lo stesso statuto speciale del Trentino Alto Adige e quindi la possibilità di spendere al suo interno il 90% delle tasse. Ma ben presto ci si è resi conto che era una battaglia impercorribile: avrebbe, secondo la Consulta, scardinato “i legami di solidarietà tra popolazione regionale e resto della Repubblica” e pregiudicato “l’unità giuridica ed economica di quest’ultima”. Ecco allora il cambio di strategia degli autonomisti: ufficialmente rinunciano alla battaglia per una radicale autonomia fiscale e chiedono solo di trasferire le competenze. Ma poi nelle trattative con il governo cercano di strappare, attraverso la nuova stima dei fabbisogni, una spesa maggiore da finanziare trattenendo tasse sul territorio. Questo disegno “sotto traccia” è agevolato da una procedura decisionale a dir poco inquietante. Tutta la discussione sull’autonomia sta avvenendo non in Parlamento ma nel segreto delle trattative tra governo e Regioni. L’intesa diventerà poi un disegno di legge che a quel punto le Camere potranno solo approvare o respingere senza alcuna possibilità emendativa. Una volta approvata, la legge non potrà essere cambiata per almeno 10 anni senza l’assenso della Regione. Insomma, la procedura sembra fatta apposta per raggiungere nel più assoluto silenzio gli stessi obiettivi di radicale autonomia che prima venivano sbandierati alla luce del sole.