Corriere della Sera, 27 gennaio 2019
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Biografia di Rosa da Tivoli (Philipp Peter Roos)
Nella mostra di Palazzo Martinengo c’è un dipinto che susciterà in molti una sensazione di déjà-vu: «Ma dove ho già visto quelle capre?», si starà domandando qualche visitatore. La risposta è nel primo refolo d’istinto elementare: quelle capre campeggiano sulla copertina di Dall’ombra alla luce – da Caravaggio a Tiepolo, uno dei volumi della serie «Il tesoro d’Italia» di Vittorio Sgarbi. Of course.
Capre fiabesche, così capellute su un quasi irreale sfondo azzurro acceso, capre che sembrano tratte dalle visioni notturne di un cantastorie e sembra di sentire intorno qualche canzone campestre. Le ha dipinte un artista tedesco che per amore (delle donne, del vino e del sole) lasciò il suo paese nel 1677, giunse a Roma e si innamorò della campagna laziale, tanto da rimetterci anche il nome: fu così che Philipp Peter Roos divenne per tutti Rosa da Tivoli. Nell’agro romano infatti acquistò una casa che riempì di animali e che tutti ben presto presero a chiamare «l’arca di Noè». Ma questa storia inizia in un modo del tutto diverso.
Roos venne in Italia con una borsa di studio. Era velocissimo d’esecuzione e questa abilità gli valse il soprannome di Mercurius. Le premesse della sua nuova vita erano eccellenti: entrato nella bottega di Giacinto Brandi, sposò la figlia di questi e accettò una strategica conversione al cattolicesimo che gli avrebbe aperto porte ben più importanti. Infatti divenne membro della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Letteratura dei Virtuosi al Pantheon e il suo nome cominciò a circolare con una certa assiduità.
Poi però arrivò una singolare, bizzarra, attrazione per gli animali. Nelle campagne del Tiburtino, Rosa acquistava delle bestie, le rinchiudeva in un serraglio e le dipingeva vestendole di un’atmosfera che non era banalmente bucolica, ma che cercava uno spirito diverso. Come se stesse ricreando un’Arcadia reale, materica, un mondo nel quale mettersi a vivere dimenticandosi il freddo del Nord, le ambizioni, persino i doveri civici. Di lui Goethe disse che indugiava nel pettinare i boccoli di lana delle pecore e la barbetta delle capre «con una pazienza cappuccinesca affettuosa e innamorata», come se gli spiacesse doversene poi distaccare una volta terminato un dipinto.
Non voleva raccontare le capre, Rosa voleva vivere con le capre. E così «finì più esperto pecoraio che pittore», annotò con una punta di (ingiusta?) acredine Pietro Solari alla fine degli anni Trenta, quando la pittura di Rosa da Tivoli e quella di molti altri artisti campestri venne «riscoperta» e analizzata – basti pensare che fu solo nel 1943 che Pietro Longhi resuscitò la scuola dei Bamboccianti (quei pittori che rappresentavano scene di vita contadina, sia agreste che urbana). E così, in mezzo alle sue pecore sognanti e alle sue capre beate tra le rovine di un’antica grandezza, Rosa da Tivoli finì per perdersi in un mondo parallelo, quieto, animato dal belare ovino così accuratamente coltivato.
Punto di vista
Non voleva raffigurare pecore e capre, ma voleva vivere con loro
e le rese primedonne
Poi però la sua vita si piegò. I vizi ebbero la meglio. Si racconta che ad un certo punto, per pagare i conti dell’osteria, Rosa rispolverò la sua antica velocità d’esecuzione: realizzava dipinti in poche ore per saldare debiti o anche solo come piccoli doni ad amici. Viveva per le sue capre e per quella luce sognante, per una pittura che, alla fine, era diventata tutt’uno col soggetto.
Finirà in miseria, anche se gli sopravviverà una pittura originale, corposa e densa. Il suo fu il racconto di una terra (la campagna del Centro Italia) che unì la suggestione dei resti di una grande potenza e la dolcezza di un paesaggio che attirò innumerevoli artisti del Nord, i quali si italianizzarono, proprio come Rosa da Tivoli.
Eppure in colui che fu Philipp Peter Roos, c’è di più: le sue pecore e le sue capre giocano a fare le primedonne in un teatro della miseria, quale era la campagna italiana tra Sei e Settecento. Non sono delle figure che accompagnano lo sfondo: sono delle vere e proprie protagoniste che oggi, nella mostra bresciana, risaltano per la qualità quasi umana delle loro espressioni.