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 2019  gennaio 26 Sabato calendario

Il 95 enne veterano della Crusca

Ci ha aspettato dritto sulla porta di ingresso della villa. Sembrava tenuto in piedi dalla sua eleganza, silenziosa ma tenace. Piccolo di statura, grande di intelletto. I capelli bianchi come il latte, tirati all’indietro. Una sciarpa grande, verde, infilata nella giacca. Le braccia legate dietro alla schiena. La sua andatura è talmente leggera che pare saltellare a ogni passo. «A cosa devo questa improvvisata?», si rivolge ai suoi ospiti con un sorriso tondo. Con un cenno cordiale del capo saluta. Un inchino a mezzo busto e andiamo avanti. Ci addentriamo nelle sale dai soffitti alti dell’Accademia della Crusca a Firenze. Piero Fiorelli ci guida. Fa da padrone di casa indiscusso e discreto. Lui, che a novantacinque anni, non ha dimenticato nulla di questa istituzione. Nel sacro tempio della lingua italiana ha trascorso la sua vita. Da quarantotto anni è un accademico. È il veterano dell’Accademia della Crusca, guardiano sapiente del suo passato, custode nascosto del suo presente. Ancora oggi si rifugia tra quelle stanze e sprofonda con la testa nei libri. Com’è possibile a novantacinque anni studiare con tanto ardore, ce lo spiega lui. «Lo studio mi tiene in vita», sussurra tutto d’un fiato quando ci sediamo attorno a un tavolo di vetro nella sala della presidenza, o «dell’arciconsole» come lo chiama lui all’antica. 

MEMORIA DI FERRO
Ci si perde nei suoi gesti misurati. Il tono della voce è pacato, caldo, denso. Le parole calzano a pennello sui concetti, Fiorelli ricama ogni volta che imbastisce un discorso. Ricorda tutto: nomi, date, avvenimenti. Li ripete come fosse cosa da niente alla sua età. Nemmeno un segno di incertezza, nemmeno una volta si sente la sua voce biascicare o balbettare alla rinfusa per rintracciare nella mente una nozione andata perduta. Inizia a rammentare, a cucire il filo della storia dell’Accademia. Ma quando capisce che vogliamo sapere di lui, arrossisce. Si chiude, quasi affonda nelle spalle quadrate. «Mi attribuite meriti che non ho», sentenzia con l’umiltà di chi ha sempre faticato nel silenzio, senza pretendere nulla. «Mio padre aveva una piccola industria di lacci e di stracci di lana. Mia madre era casalinga», gli strappiamo quasi di bocca. «Io ho studiato perché non sapevo fare altro. Questa è la verità», confessa quasi fosse una vergogna. Ha iniziato come Accademico segretario, scopriamo. Aveva una cinquantina d’anni allora, mezzo secolo fa. Laureato in Giurisprudenza, ha insegnato a Trieste, Roma, Firenze. «È cambiata molto l’Accademia della Crusca oggi rispetto a quegli anni», spiega, intrecciando le mani dinanzi al petto, aggrottando la fronte come a voler setacciare nella sua memoria. «Eravamo in due o tre a quei tempi a frequentare l’Accademia. Io ci venivo già da diversi anni per consultare i manuali antichi. C’era un cancelliere filologo e un copista o un dattilografo», racconta. «Oggi, gli “amatori della lingua” si sono moltiplicati. Sono almeno una quarantina. Non mi sarei mai aspettato una simile rivoluzione». Tutto merito della rete, ammette. «Io il computer non lo so utilizzare», scuote la testa, «mi limito a studiare i libri». Non ha cambiato una virgola nel suo metodo di studio, meticoloso, lungo, elaborato. Cosa le piace tanto dello studio?, chiediamo. «La ricerca», risponde questa volta senza un minimo di esitazione. «È la scoperta a tenermi attivo. Se utilizzassi la ricerca in rete, mi mancherebbe lo stimolo. Io devo toccare qualcosa con mano, scoprire cosa c’è in quella certa pagina d’archivio, trovare una notizia nuova, che mai nessuno prima aveva appreso. Su internet è tutt’altra cosa- continua animandosi – se trovassi in rete una risposta bella e pronta, semplicemente pigiando un bottone, mi sentirei di essermi appropriato di una benemerenza di qualcun altro».

NESSUN ORARIO
Viene fuori che la sua vita è scandita dal tempo lento dei libri. Tra un pasto e l’altro, tra una piccola pausa e una breve distrazione, si incurva sui manuali. «Se non ho da brigare qualcosa in casa, anche oggi passo le giornate a studiare. Ogni tanto apparecchio, sparecchio, debbo andare a comprare qualcosa e via discorrendo. Non avendo più orari, mi dedico allo studio», racconta e gli occhi, azzurri velati, si bagnano di commozione. Un paio di volte a settimana, dalla provincia di Firenze, si reca in Accademia. «Mi accompagna mia figlia, ma ogni tanto guido anch’io». In questi anni sta lavorando agli aggiornamenti del “Dizionario d’ortografia e pronunzia”, il più grande dizionario ortografico della lingua italiana, che fornisce la corretta pronuncia delle parole. «Il mio lavoro è stato pubblicato anche in rete», annuncia, «ma io con la tecnologia non c’entro nulla. Trascrivo le parole sulla carta. Ogni giorno cavo dalla tasca una schedina per trovare fuori una parola, una pronuncia accertata, un esempio letterario. Poi mando tutto per posta al Borri, mio illustre collega. Lui trascrive il mio lavoro sul sito. Ora che mi viene in mente, ho da spendergli circa ventimila tra aggiunte e correzioni...». Si alza, ci allontaniamo di nuovo nelle salette squadrate. «Come sono rimasto indietro nel tempo», sorride. Ci saluta e la sua sagoma si allontana, diventa più piccola, sembra inghiottita dal passato da cui proviene.