Corriere della Sera, 26 gennaio 2019
Capucci, il «rosso bello»
Il rosso bello. Così Michelangelo definiva una particolare tonalità della sua pittura. Roberto Capucci scoprì quel rosso quando ebbe la possibilità, negli anni 90, di salire sulle impalcature dei restauri della Cappella Sistina. «Un rosso che non sono riuscito ancora a trovare tra i miei tessuti». Per capire il valore di questo mago della moda, uno dei padri del made in Italy, bisogna partire da un qualcosa che non ha (ancora) raggiunto. Perché è nella ricerca infaticabile e inestinguibile di forme, tessuti, colori che si racchiude la sua arte.
È un racconto sorprendente e appassionante quello che emerge dal libro di Gian Luca Bauzano Lo scultore della seta – Roberto Capucci, il sublime nella moda, edito da Marsilio per la collana Mestieri d’arte della Fondazione Cologni. La storia di un giovane romano, minuto e con il volto pensieroso, concentrato, che nell’Italia del dopoguerra trova la sua ragione di vita nel disegno di abiti. E che nel 1951 viene scoperto e lanciato a Firenze dal marchese Giovanni Battista Giorgini. Quell’anno il nobiluomo decide di riunire il meglio della creatività italiana e di sostenere (sfidando l’avversione dei grandi nomi) un giovane talento sconosciuto.
Ci aveva visto giusto: già prima della fine di quel decennio, Capucci crea l’incredibile «Nove gonne» ispirandosi all’effetto sull’acqua creato dal lancio di un sasso (abito che seduce Ester Williams) e nel 1958, in pieno boom dell’Italia che nel ’59 vincerà l’Oscar della lira, si aggiudica a Boston il Nobel della moda con la «Linea a scatola»: un vestito che apparentemente annulla le forme femminili dentro una corazza ma che in realtà segna l’inizio di un rapporto molto dialettico tra corpo e linee architettoniche.
Ricco di aneddoti e di immagini, con molti dettagli sui materiali e le lavorazioni, il libro di Bauzano diventa un racconto alternativo della storia italiana. Negli anni Sessanta Capucci decide di aprire un atelier anche a Parigi (dopo che Oriana Fallaci gli rivela gli apprezzamenti nei suoi confronti di Dior) e sperimenta abiti trapezoidali unendo organza di seta alla plastica. Negli anni Settanta, tornato in Italia, si fa influenzare dall’Arte Povera e unisce al georgette rifiniture in bambù. Dagli anni Ottanta è l’esplosione di colori in mille nuance, volute, evocazioni della natura.
Comincia l’epoca dei magistrali plissé, che nascono sempre da un cartone e si realizzano grazie all’eccezionale lavoro artigianale dell’atelier Milady di Marco Viviani e Roberta Bacci. E Capucci verrà invitato, nel 1995, alla Biennale di Venezia dal curatore Jean Clair: uno scandalo per gli artisti della nostra avanguardia. Ma Clair non ebbe dubbi sui valori artistici dei dodici abiti-scultura creati da Capucci che già era stato esposto accanto a Picasso e Moore in una mostra a Parigi.
Insomma, un vero maestro d’arte che ha esaltato anche i costumi d’opera e ha avuto tra le sue clienti attrici, cantanti e donne di scienza, come Rita Levi Montalcini.
Ma in questo rutilante mondo di creazioni, il vero Capucci resta quello schivo e silenzioso davanti a un foglio, con la matita in mano alla ricerca di un pensiero (sublime) di bellezza.