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 2019  gennaio 26 Sabato calendario

Roger Stone, o «sporco imbroglione» che si è tatuato Nixon e ha lanciato Trump

WASHINGTON Roger Stone ama giocare d’anticipo. I detrattori più gentili lo considerano una «figura odiosa»; gli altri addirittura «un topo» del sottobosco politico di Washington. Stone, 66 anni, non si è mai scomposto: «Lo so, sono uno sporco imbroglione». Nel 2016 ha concesso una lunga, sorridente intervista agli autori di un documentario che lo faceva praticamente a pezzi: Get me Roger Stone , prodotto da Netflix.
Vecchia scuola, si potrebbe dire: mai prendere di punta i nemici, mai arrabbiarsi in pubblico, mai mostrarsi vulnerabile. Stone ha costruito il suo personaggio in più di quarant’anni di attività politica, rimanendo sempre un passo indietro, ma comunque attento a non uscire dalla visuale diretta del leader. 
Ha raccontato lui stesso di aver cominciato all’Università di Georgetown, che ha lasciato senza laurearsi. Già all’epoca pensava più alle relazioni, al «network», che ai libri. Faceva parte di un club di giovani repubblicani, entrò in contatto con il comitato elettorale di Richard Nixon e nel 1972 ottenne un incarico alla Casa Bianca. 
Stone è nato a Norwalk, nel Connecticut, ma è cresciuto a Lewisboro, nello Stato di New York. Famiglia cattolica, con qualche ascendenza italiana. Un ragazzo della middle class che ha attraversato la grande protesta giovanile degli anni Sessanta e Settanta, affascinato dai particolari eccentrici, dagli abiti di sartoria dal taglio antico. Oggi ne ha oltre 400, allineati, come in una boutique, nella sua casa di Harlem e nella villa di Fort Lauderdale, in Florida. Per larga parte degli americani, conservatori compresi, Nixon è stato il peggiore capo di Stato nella storia recente degli Stati Uniti. Roger, anticonformista sistematico, si è invece fatto tatuare il ritratto del presidente del Watergate sulla schiena.
Non sappiamo se Stone abbia un vero archivio. Se ce l’avesse sarebbe una porta preziosa per entrare nel retrobottega della politica americana dai tempi di Nixon, appunto, passando per Ronald Reagan, George Bush senior, fino ad arrivare a Donald Trump. 
Oltre alla politica, e ai vestiti, Stone si è dedicato a fare soldi, un mucchio di soldi. Negli anni Ottanta ha messo insieme un team di spregiudicati avvocati e consulenti. Il suo partner principale era Paul Manafort, anche lui arrestato nei mesi scorsi dal Super procuratore Robert Mueller. Fu Stone ad avere l’intuizione milionaria: diventare i portavoce, i lobbisti dei leader più impresentabili, ma anche tra i più facoltosi del mondo. Dittatori come Mobutu, dell’allora Zaire, o figure sinistre come il leader dei ribelli angolani, Jonas Savimbi. 
A un certo punto, intorno al 1983-1984, lo studio Manafort-Stone incrocia un ambizioso e spregiudicato costruttore del Queens: Donald Trump. A quell’epoca «The Donald» stava sviluppando il business dei casinò, nel New Jersey e nello Stato di New York. Stone, in particolare, provò a bloccare il progetto di una casa da gioco gestita dai nativi americani a Catskills: un’insidia diretta per il casinò trumpiano di Atlantic City. Lo fece a modo suo. Risultato: la Commissione di sorveglianza sulle attività di lobbying lo multò con 250 mila dollari per «condotta irregolare». Ma intanto tra Trump e Stone era nato un sodalizio destinato a durare più di trent’anni. Fin dall’inizio Roger spinse «Donald» verso la politica. Nel 1984 gli chiese, per conto del partito repubblicano di New York, se fosse interessato a sfidare Mario Cuomo per la carica di Governatore dello Stato. «No, punto», fu la risposta. Nel 1999 Trump mise in piedi un comitato per «esplorare» la candidatura alla Casa Bianca con il Reform Party . Al suo fianco c’era Stone. Poi, nel 2008, arrivarono i giorni del distacco. Trump diceva di «essere disgustato» dai metodi del suo consigliere. Tutto superato nel 2015: Roger è tra i più convinti sostenitori del tycoon nelle primarie repubblicane, questa volta vincenti. Non ha mai ricoperto, però, incarichi troppo esposti. Si è sistemato nella sua collocazione ideale, smarcandosi dalla folla di postulanti e di amici dell’ultima ora. È sicuramente una delle persone più informate sulle manovre del comitato elettorale nel 2016 e, come sempre, sulle opere e i pensieri di Donald Trump. Il primo a esserne convinto è il Super procuratore Mueller.