Tuttolibri, 26 gennaio 2019
Chi conquista gli archivi scrive la Storia
La storia la scrivono i vincitori? Continuamente citato dai revisionisti più patetici, questo stantio luogo comune è completamente falso oggi, quando nei paesi democratici chiunque è libero di studiare, scrivere e pubblicare tutto quello che vuole: e così, ad esempio, dopo il 1945 i fascisti hanno pubblicato in tutta libertà, per chi la voleva leggere, la loro versione della storia recente, senza dover aspettare l’arrivo di un Giampaolo Pansa a battere la grancassa. Il che non vuol dire che la tentazione di tenere nascosti i documenti, o di lasciarli vedere soltanto a storici di provata fede, non sia una tentazione ricorrente di chi sta al potere. Anche nei paesi democratici è normale che certi atti del governo siano tenuti segreti per qualche decennio; nelle dittature il limite non c’è, sicché solo la sconfitta del nazismo ha permesso di disseppellire l’immensa documentazione che prova la pianificazione della Shoah, ed è stata necessaria la caduta dell’Unione Sovietica perché gli archivi del KGB rivelassero il destino degli intellettuali e degli artisti scomparsi sotto Stalin.
Chi controlla gli archivi controlla, insomma, anche il modo in cui viene scritta la storia; e nessuno ne era così consapevole come Napoleone. L’imperatore possedeva in sommo grado quella capacità di vedere in grande che il presidente George Bush senior, essendone notevolmente privo, chiamò una volta, con visibile fastidio, «the vision thing». E parte della sua visione era trasformare Parigi nella capitale del mondo: non soltanto la città più bella, ammirata e invidiata, ma proprio l’unico luogo in cui fosse possibile fare politica, arte e scienza al livello più alto.
Le sistematiche razzie di opere d’arte prodotte da questa visione sono ben note, e ingrossano da sempre il nutrito dossier degli argomenti contro la tirannide napoleonica. Molto meno nota, prima di questo studio di Maria Pia Donato, era l’altrettanto sistematica spoliazione degli archivi compiuta dagli inviati dell’imperatore nelle capitali conquistate, da Bruxelles a Torino, da Vienna a Roma, nell’intento deliberato di sottrarre alle province annesse alla Francia e ai superstiti governi rivali la materia prima della loro memoria storica e delle loro eventuali rivendicazioni politiche. Giacché nell’Europa di allora, molto più di oggi, il passato condizionava il futuro e poter provare un diritto, un possesso, una consuetudine grazie alle carte d’archivio era un’arma concreta ed efficace nella competizione tra paesi. Lasciare alle città italiane i documenti che provavano il loro libero passato comunale, riferiva nel 1811 l’archivista imperiale Daunou, inviato a ispezionare gli archivi della Penisola, era politicamente sconsigliabile: «Se questi pezzi restano negli archivi municipali, daranno luogo presto o tardi a pretese e reclami per lo meno scomodi».
Perciò alle conquiste di Napoleone seguiva regolarmente la confisca degli archivi; a volte, come accadde dopo l’occupazione della Spagna, l’imperatore la considerava così urgente da ordinare che i documenti fossero mandati in Francia usando gli stessi cassoni che avevano trasportato il biscotto per la truppa. Il possesso dei documenti avrebbe permesso agli storici di regime di scrivere una nuova storia secondo le convenienze dell’impero: l’archivio del Sant’Uffizio sequestrato a Roma doveva dimostrare le malefatte del potere papale, e Napoleone ordinò di indagare fra le carte «per sapere se ci sono esempi di imperatori che abbiano sospeso o deposto dei papi».
Alla caduta di Napoleone seguì l’inevitabile controesodo: le potenze vincitrici sguinzagliarono a Parigi non soltanto cacciatori di opere d’arte rubate, antesignani dei Monuments Men celebrati da un recente film di George Clooney, ma cacciatori di documenti. Tutto tornava indietro, tutto tornava come prima? Non proprio: come in molti altri ambiti toccati dal terremoto napoleonico, a dispetto dei proclami i vincitori avevano tutto l’interesse ad approfittare dell’occasione. E così, mentre i fondi del grande Archivio di Corte torinese sottratti ai Savoia tornavano a Torino (in attesa che una parte di quei fondi fosse di nuovo rapinata dalla Francia dopo la sconfitta dell’Italia nella Seconda Guerra Mondiale), i documenti genovesi recuperati a Parigi non tornarono a Genova, ma presero anch’essi la via di Torino.
Sacrificata alla Realpolitik della Santa Alleanza, la millenaria repubblica non era stata restaurata, anzi, per suprema beffa, Genova era stata regalata ai Savoia, che da sempre odiava e temeva; puntualmente, il governo sabaudo giudicò sconveniente «lasciare a Genova certi titoli e carte che sono troppo importanti». Per quanto il suo nome fosse pubblicamente esecrato, Napoleone aveva insegnato ai sovrani europei parecchie cose di cui avrebbero dovuto essergli grati.