Tuttolibri, 26 gennaio 2019
Riscoprire Cuore di De Amicis
Luigi Baldacci, che non amava De Amicis, lo definì, sulla Nazione di Firenze, il portatore sano, se non il portavoce, di un «Ottocento Umbertino, piccolo e filisteo, pieno di buone intenzioni e, tuttavia, impostato su cattive basi». E’ una lettura che merita rispetto, ma che tende a limitare la portata dell’attività intellettuale del piemontese ad un mero intento pedagogico: insegnare agli italiani sulla carta ad essere italiani di fatto. Tuttavia, quella di Baldacci e di molti altri è una lettura che di De Amicis, e della sua attività, non considera il punto focale, e sarebbe a dire la sua capacità di inventare una società attraverso l’applicazione di un’utopia. Il De Amicis bacchettone e bonario che i detrattori descrivono è distante anni luce dal raffinatissimo stratega, cesellatore di antropologie, creatore di modelli sociali che, oggi più che mai, uniformano la complicata nazione in cui viviamo.
De Amicis ha inventato gli italiani. Ne ha espresso le coordinate di popolo, ne ha tracciato l’unico profilo unitario che soprassedesse alle immense differenziazioni che da sempre lo contraddistinguono. E tutto ciò perché aveva a cuore un modello di società utopistico fino al punto di pensare che si è felici solo a patto di essere felici di quello che si è. Una tautologia solo apparente. Un intento assai meno semplice di quello che sembrerebbe a prima vista. Perché lavorare su un materiale incandescente come una Nazione da farsi, nonostante sulla carta avesse circa vent’anni, e cimentarsi a dare punti di riferimento, e intenti comuni a gruppi di cittadini che fino a pochissimo tempo prima erano vissuti in uno stato di separazione amministrativa e geografica, era il cimento di un pazzo o di un sognatore. Eppure, a considerare dal rilascio talmente lento che è arrivato intatto persino ai nostri giorni, quel sistema, quel dispositivo, da lui messo a punto, ha funzionato straordinariamente bene.
Ora sul fatto che sia un bene che abbia funzionato si potrebbe discutere, ma il dato sostanziale è che, quando nel 1886 nelle vetrine delle librerie, nelle case degli italiani, nei banchi di scuola apparirà Cuore, questi italiani endemicamente difformi, geneticamente polemici, caratterialmente lagnosi, difettosi nel senso di Patria, politicamente pusillanimi, saranno diventati, definitivamente, «brava gente». Questo abito di alta sartoria antropologica che veste e nasconde qualunque bruttura, che individua nella bontà utopistica un punto di unione, un collante nella separatezza, è il vero, geniale, contributo intellettuale di Edmondo De Amicis.
Cuore è un libro su commissione, l’unico classico della letteratura italiana che sia scaturito da esigenze non prettamente letterarie. E tuttavia di letteratura si tratta considerando che Cuore inizia esattamente dove finiscono I Promessi Sposi. E cioè dall’ultimo capitolo, quando nel «e vissero felici e contenti» Manzoni racconta dei figli di Renzo e Lucia che «furon tutti ben inclinati; e Renzo volle che imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacché la c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro». La «birberia» attraverso la quale si poteva ottenere una Nazione «ben inclinata» si chiamava dunque, Istruzione e, dunque, Istituzione Scolastica. Uno spazio cioè dove si potesse riprodurre in vitro quella stessa difformità, quella stessa incapacità di coesione, quella stessa, infantile, tendenza a non assumersi responsabilità sociali, che caratterizzava, e caratterizza, il rappezzato popolo italiano.
Inventarsi gli «italiani brava gente» ha significato trapiantarli in una serra dove tutti quei difetti indelebili potessero, almeno sulla carta, diventare pregi. E dove si potessero attivare quelle qualità intrinseche che avviassero un processo virtuoso di contributo reciproco anziché un tentativo costante di avere la meglio gli uni sugli altri. Chi pensasse al contributo di De Amicis solo in termini prettamente letterari avrebbe una visione assai limitata della portata che la letteratura può avere se professionalmente indirizzata. De Amicis è stato un professionista formidabile. Il suo modello di Italia è quello che ha salvato gli italiani da sé stessi. Che formalizzando sardi sacrificali, lombardi guardinghi, romagnoli sanguigni, fiorentini artisti, liguri viaggiatori con poca spesa, siculi figli della Provvidenza, veneti semplici e introversi, campani col cuore in mano, e così via, ci ha convinto che il segreto di una Nazione coesa era nella retorica di se stessi.
Cuore è quell’abito della bontà, o della bonomia, che costantemente rinneghiamo, ma che non abbiamo mai cessato di portare. E’ il mantello con cui copriamo la natura ferina che ci contraddistingue e che Leopardi nel Saggio sul carattere degli italiani, Gramsci che odiava gli indifferenti, Gobetti nell’Autobiografia di una Nazione, Croce nell’individuazione della nostra inguaribile malattia morale, fino a Fruttero e Lucentini ne La Prevalenza del Cretino, avevano individuato con impietosa lucidità.
Come Vasari, un pittore professionista, ma non geniale, inventò il Rinascimento, così De Amicis inventò l’Italietta. E per capire quanto inossidabile sia quell’invenzione ci basta accendere la TV generalista pomeridiana popolata di madri separate, figli eroici, padri lontani, ricongiungimenti da oltre oceano, atti di microeroismo, che riversa nelle nostre case un oceano di «cuorismo» e che ci fa pendere verso il manicheismo un po’ egoista di chi si sente comunque nel giusto. Basta ritornare ai nostri ricordi d’infanzia, e a quella «carezza del Papa» che Giovanni XXIII aveva attinto proprio dal libro Cuore, da quella «carezza del Re» che il padre operaio porge al figlioletto dopo aver stretto la mano al monarca. Ma gli italiani brava gente sono l’alter ego di quegli stessi che bruciano i campi Rom o che osannano chi lascia morire la gente in mare, «chi ci governa ne tenga conto» ebbe a dire in proposito Leonardo Sciascia.