La Stampa, 26 gennaio 2019
Intervista a Fausta Squatriti
Ci vuole una certa energia per essere artista, di più se sei una donna, molto di più se volevi essere considerata in mezzo agli Anni Sessanta e Fausta Squatriti non sa ancora oggi se ci è riuscita e a questo punto non gliene frega proprio niente. L’arte è letteralmente passata in casa sua, nomi importanti, momenti storici in cui lei è stata il centro della scena. Pittrice, scultrice, poetessa, editrice, creativa, tuttofare e sempre bene. Non è resistenza è proprio vivacità. L’esuberanza che la porta adesso a La passeggiata di Buster Keaton, mostra alla Galleria Bianconi di Milano che racconta ribellioni e amicizie indelebili.
Da dove escono questi lavori?
«1964, nell’aula dell’Accademia di Brera ci imponevano le nature morte, le allestivano con una straccio e io piuttosto che copiare mi concentravo su quello. Macchie per scatenare la fantasia».
Oggi le danno sensazioni nuove?
«Sì, allora non erano molto considerati, era difficile per una ragazza farsi prendere sul serio».
Cosa doveva fare una donna per essere artista?
«Non aveva nessuna chance. “Che peccato che sei donna” oppure “Bel lavoro, non sembra di una donna”. Il mondo era questo».
Mai pensato di cambiare mestiere?
«No. A 12 anni sono andata a vedere una mostra di Picasso e ho detto a mia madre: farò la cubista. Alle medie un professore brillante, Monnet, tra i protagonisti del Mac, mi ha fatto persino partecipare a un concorso per disegni sui tessuti».
La prendevano più sul serio a 12 anni?
«Già, ma non ho mai avuto imbarazzi. Non c’erano spazi, ma c’erano persone. Fontana, per esempio, mi ha incoraggiata molto».
Cosa le è rimasto più impresso di lui?
«Ho dimenticato voci di persone care, ma ho sempre presente la sua. Era come lui: aperta, positiva. Lucio era generosissimo. Foraggiava tutti gli artisti giovani».
Compresa lei?
«Certo, soprattutto si fidava. Ricordo quando portai da Milano a Roma, sulla mia Giardinetta rossa, la sua pillola gigante. L’aveva chiamata come l’anticoncezionale... oggi vedo titolo pomposi tipo “forma ovoidale”: tutte balle. Lui fu uno sponsor eccezionale».
Non l’unico.
«No, ma il primo. Mi presentò Iolas, un gallerista importantissimo che mi mise in contatto con Max Ernst, lo andai a trovare nella sua villa in Costa Azzurra. E poi Jean Tinguely, Niki de Saint Phalle... avevano le chiavi di casa mia».
Di loro che le resta?
«Quanto ci siamo divertiti. Nel 1970, per l’anniversario del “Nouveau réalisme”, Tinguely mi dice “voglio fare un cazzo gigante in piazza Duomo”. Risposta: “Meglio che non lo sappia nessuno”. In gran segreto, lo abbiamo messo su nel mio studio. Il 28 novembre, a Milano, nebbia fitta, piazza gremita e sto catafalco coperto di plastica viola infiammabile pescata dalla mia cantina. Quando è stato svelato si è fatto un silenzio indimenticabile».
Provocazione?
«Eravamo così. Figurarsi, Christo aveva impacchettato Vittorio Emanuele, poi glielo hanno fatto liberare perché era insultante. Dopo ha impacchettato Leonardo Da Vinci... quella era solo cultura non fregava nulla a nessuno già allora. Eppure erano tempi intensi, si faceva l’amore per simpatia. Tinguely e Saint Phalle avevano un giro di amanti e me li portavano tutti a casa. A un certo punto mi hanno detto: “senti, smettila di cambiare tutte queste lenzuola, siamo sempre noi”».
Come era vista l’arte allora?
«In modo più romantico, oggi è merce».
Manca il coraggio o mancano i soldi?
«Manca la cultura. In quegli anni se facevi le cose bene comunque qualcuno se ne accorgeva».
Se guarda la foto di Man Ray, “Fausta, la belle”, che cosa pensa?
«Chi è quella signora?».
Le somiglia molto. La consideravano più bella che brava?
«Di sicuro, ma né mi lusingava, né mi infastidiva, la vita andava di corsa, facevo mostre internazionali, non me ne fregava nulla del giudizio o dei ruoli. Cucinavo per tutti e non mi pareva un limite. In più eravamo un gruppo di snob, io per prima».
Altri ospiti a tavola?
«Antonio Calderara ed Enrico Baj, lui mi ha fatto conoscere il testo teatrale di Garcia Lorca, “La passeggiata di Buster Keaton” che ora è completa. Ci ho finalmente messo le cornici».
Le aveva tolte?
«Nei Sessanta tutti le toglievano, erano un simbolo conservatore. Io ne ho recuperate una miriade: volevo il contrasto tra le figure svolazzanti e la borghesità in cui sono nata. L’idea non è piaciuta, il kitsch non esisteva, Dorfles l’ha sdoganato dopo».
Altro suo estimatore, ha scritto molto su di lei.
«Sì, poi però non mi ha invitato alla sua Biennale».
Si è offesa?
«No, dispiaciuta sì. Non gli ho mai chiesto perché, ma una volta mi ha scritto un testo per le sculture geometriche e gliel’ho rifiutato: era superficiale. Anni dopo mi ha dato ragione. Siamo rimasti amici a vita».