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 2019  gennaio 26 Sabato calendario

I 60 anni di Patrizio Oliva. "Una vita sul ring con una mano fracassata"

Un uomo dai pugni gentili, una minuscola enclave di sorriso in un paese straziato dalla bomba di Bologna il 2 agosto 1980: «Conquistai l’oro olimpico a Mosca con la tristezza nel cuore per quello che era successo in Italia». Patrizio Oliva dopodomani taglia il traguardo dei sessanta. Divenne famoso nel pomeriggio di un maledetto giorno d’estate quando di anni ne aveva ventuno. «E pensare che rischiò di saltare tutto. A Mosca le operazioni di pre-peso ci colsero di sorpresa, dopo la colazione. Nessuno era nei limiti della sua categoria e l’allora ct Falcinelli ci fece fare una sauna con una tuta di lana addosso. Una tortura inutile, perché non calammo abbastanza e fummo esclusi». Ma per ‘fortuna’ c’era la guerra fredda: «L’occidente e gli Usa avevano boicottato i Giochi, il Cio ci diede una seconda chance per non perdere anche l’Italia». Una svolta nella vita e nella carriera: «Battei a casa sua il sovietico Konakbayev. I veri ori olimpici siamo stati io, Parisi, Stecca, e prima ancora Benvenuti. Ragazzi di 20 anni capaci di piegate gente con 200 match alle spalle...». Una dimenticanza voluta per i vari Cammarelle e Russo: «Bravi pugili, per carità, ma vincere quando hai 30 anni contro gente acerba è facile. Loro sono il frutto di 15 anni della gestione federale precedente a quella attuale, che pensava solo alla boxe dilettantistica e ai contributi del Coni. Ora le cose stanno cambiando con ragazzi validi come Vianello e Natalizi».
Parole potenti più dei suoi colpi. «Chi voleva il fighter (un pugile che accetta la battaglia, ndr) mi detestava, ma non mi facevo certo spaccare la faccia per fare contento qualche critico... E poi ho combattuto con una mano sola. Quella destra me l’ero fracassata sui sacchi duri come la pietra della palestra Fulgor di Poggioreale. Mi ci aveva portato mio fratello Mario, anche lui pugile. Un luminare di Napoli sentenziò: osteoporosi. Per un impiegato delle poste va bene, ma per un pugile...». Da lasciar perdere, ma c’era una promessa: «Uno dei miei fratelli morì a 15 anni per un tumore. Gli avevo giurato che sarei diventato campione olimpico e mondiale. Pensando a lui sopportavo le scosse di dolore ogni volta che portavo il destro». 
Poi un giorno, a Montecarlo, lo sparviero (il suo alias, glielo diede il giornalista Franco Esposito) divenne toro. «Contro l’argentino Sacco per il mondiale. La tecnica non poteva bastare. Accettai una battaglia selvaggia per quindici round e vinsi». Sacco, argentino come Coggi, colui che lo mise al tappeto. «Dopo il match con Gonzales avevo detto al mio manager Rocco Agostino che mi sarei ritirato. Lui però mi disse che c’era la possibilità di incontrare per un milione di dollari Hector Macho Camacho. In Italia c’era una grande organizzazione con soldi veri, ma per quella montagna di quattrini in Usa ci sarei andato. Gli americani presero tempo, quindi decisi per una difesa volontaria ed arrivai demotivato e spremuto al match». Poi la nostalgia canaglia: «Due anni e torno, non più tra i superleggeri ma tra i welter. Quattro match e divento campione d’Europa, batto Kirkland Laing, uno con cui aveva perso Roberto Duran...». Poi un altro epilogo amaro. «Mi preparo per il mondiale Ibf con Blocker, uno alto più di me. All’ultimo cambiano avversario, mi danno McGirt che era campione per il Wbc, più basso e con una boxe diversa. Arbitro americano e giuria avversa. Verdetto scandaloso, dissi basta». E stavolta niente dietrofront: «Ho fatto il cantante, l’attore. Quest’anno vado in scena a teatro con lo spettacolo Patrizio vs Oliva, l’uomo contro il campione. Con degli amici mi occupo della produzione della mozzarella campana nel mondo: due locali a Malta, uno a Londra, Non c’è tempo per la nostalgia».Quattro figli (un maschio e tre femmine), due matrimoni, una vita pulita come i suoi pugni: «Grazie a loro ho evitato amicizie sbagliate e ho ritrovato mio padre. La guerra e la traversie di una vita difficile lo avevano reso un uomo violento. Le mie vittorie lo addolcirono fino a farlo diventare un genitore ideale. Il mio titolo più importante probabilmente è stato proprio questo».