la Repubblica, 26 gennaio 2019
Anche il triangolo di pizza è napoletano
La slice pizza, con buona pace dei newyorkesi, è nata nel ventre di Napoli. E con largo anticipo sugli spicchi di anchovies e di pepperoni che a partire dagli anni Sessanta hanno conquistato la Grande Mela. In realtà ben due secoli prima, i vicoli partenopei erano attraversati a tutte le ore del giorno e della notte da ragazzini che vendevano spicchi di pizza calda e fragrante. Era il classico street food per la pausa pranzo di sartine, ricamatrici, falegnami, impagliatori di sedie, tappezzieri, fabbri, arrotini, calzolai, lustrascarpe e tutta quella picaresca umanità. Che non si portava da casa la schiscetta, il baracchino, la gavetta, insomma il bento del Nord operaio. Ma aveva già una vita estremanente metropolitana, fatta di mordi e fuggi nonché di consumi just in time.
Lo racconta Matilde Serao che definisce pronto soccorso dello stomaco questo cibo poverissimo, buonissimo, sanissimo, semplicissimo. Che per un popolo costretto a stringere sempre la cinghia spesso era colazione, pranzo e cena in dose unica. Ed è proprio la sua origine, metropolitana e non contadina, ad aver fatto di margherita e marinara il cibo planetario per antonomasia. Perché a partire dal dopoguerra la nostra vita assomiglia più a quella caotica e congestionata della metropoli vesuviana che non a quella delle città a misura d’uomo dove si torna a casa per pranzo. Ma il segreto del successo sta soprattutto nell’irresistibile semplicità degli ingredienti. Pasta fragrante, pomodoro fumante e mozzarella filante. Risultato un capolavoro di ottimizzazione del gusto che riassume in pochi centimetri di pasta un intero trattato di gastronomia trascendentale. Gli americani hanno a lungo millantato di aver inventato la pizza. Ora ci riprovano con la slice. Ma anche stavolta sono arrivati secondi.