la Repubblica, 26 gennaio 2019
Non esiste il porto chiuso
Vorrei provare a spiegare le ragioni per cui non è ammissibile che il governo italiano dica «porti chiusi!» alle navi che trasportano migranti, neppure per convincere un’Europa riluttante a varare politiche condivise. La vicenda della Diciotti (con la richiesta di autorizzazione a procedere per sequestro di persona aggravato contro il ministro Salvini inoltrata al Senato dal Tribunale dei ministri di Catania) e l’appello della Sea Watch per poter approdare in un porto sicuro italiano e sbarcare i naufraghi consentono una riflessione sul regime giuridico del soccorso in mare, sugli obblighi cui gli Stati sono tenuti e sui limiti all’esercizio della discrezionalità politica che non può certo essere sottratta al controllo di legalità.
Prescindendo dall’esame del diritto d’asilo previsto, tra l’altro, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo del dicembre del ’48 e dalla nostra Costituzione, va sintetizzata la sequenza procedurale prevista, oltre che dalla normativa nazionale e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare del 1982, da varie altre convenzioni internazionali. Tali convenzioni (tra cui quella di Amburgo del 1979), sono state sottoscritte anche dall’Italia, in tema di soccorso e salvataggio: ne deriva una serie di obblighi collegati in capo agli Stati aderenti e ai rispettivi governi.
I Paesi devono innanzitutto dichiarare l’area marittima di competenza denominata Sar (Safety and research, cioè Area di ricerca e salvataggio), che è più ampia delle acque territoriali, e dotarsi di un Centro nazionale di coordinamento e di appositi piani operativi. Gli Stati costieri devono anche costituire un servizio permanente di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea.
Il primo centro che riceve la segnalazione di un pericolo per la vita umana (per esempio un natante in fase di naufragio o in difficoltà) coordina con urgenza le necessarie operazioni di salvataggio finché quello della Sar più vicina non ne assume la direzione. Il Centro di coordinamento competente deve allora segnalare ai soccorritori o a chi si trova in pericolo il porto sicuro verso il quale dirigere la nave che ha effettuato il soccorso. Qui sarà quindi organizzato lo sbarco che deve avvenire quanto prima e in tempi ragionevoli. Dopo l’attracco, come da normativa nazionale, è prevista la fase di controllo medico per verificare la presenza a bordo di persone malate o portatrici di patologie infettive (cui devono essere assicurate le necessarie cure), seguita da quella dello sbarco vero e proprio che segna la conclusione del soccorso.
I migranti vengono a quel punto avviati verso un punto di accesso di prima accoglienza ( gli hotspot) per le operazioni di polizia e di sicurezza, a partire dalla loro identificazione. Sono loro fornite anche informazioni sulle norme vigenti in tema di immigrazione. Segue la fase di trasferimento in strutture di accoglienza dei minori non accompagnati, delle donne vittime di violenza e di chi abbia già richiesto asilo nelle sue varie forme o dichiari di volerlo fare. Per costoro è previsto il diritto a vedere vagliata dalle autorità competenti la loro richiesta, fino all’esaurimento delle relative procedure che includono – in Italia – il ricorso dinanzi all’autorità giudiziaria ordinaria contro l’eventuale rigetto delle istanze deliberato in primo grado dalle commissioni territoriali. In assenza di richieste di asilo, invece, può essere avviata la procedura di rimpatrio.
Durante tali fasi, può essere limitata la libertà di circolazione e spostamento dei migranti per motivi di sicurezza e ordine pubblico da individuare specificatamente. Tutti questi passaggi integrano gli obblighi di soccorso in nome dei diritti umani, incluso il divieto di respingimento. Non si tratta di obblighi condizionati dalla reciprocità. Se, per esempio, Malta li viola, ciò non esime l’Italia dal rispettarli. Ecco perché, obbedendo alle leggi dell’uomo se non a quelle dei sentimenti e della solidarietà, il ministro Matteo Salvini e il governo, specie in assenza di ragioni di ordine pubblico, non possono né “chiudere porti”, né indirizzare le navi giunte nelle nostre acque territoriali verso porti di altri Stati. Un conto è la condivisibile richiesta all’Europa di studiare e applicare sanzioni politiche verso gli Stati inadempienti, altro è dire «passo anch’io con il semaforo rosso, visto che lo fanno in molti». Ci sono limiti giuridici e non solo che in un Paese civile la politica non può oltrepassare.