Corriere della Sera, 25 gennaio 2019
#MeToo per Don Giovanni denunciato dalle sue donne
Sedotte e abbandonate, lagnose e velenose, più moleste che molestate. Così fan tutte, cameriere e cittadine, contesse e baronesse. Pur che portino la gonnella, Don Giovanni non va per il sottile. E tutto sommato nemmeno loro, pronte a cedere ogni virtù al dissoluto fascinoso salvo poi pentirsene, rinnegarlo, giurare vendetta. «Le tre che lo inseguono dall’inizio alla fine dell’opera sono delle vere persecutrici» assicura Enrico Stinchelli, da 30 anni anima della Barcaccia di Radiotre e regista di lungo corso. Alle prese a Verona con un nuovo allestimento del capolavoro di Mozart-Da Ponte prodotto dalla Fondazione Arena, da domenica al Teatro Filarmonico, direttore Renato Balsadonna, Stinchelli non viene meno alla sua fama di agit prop della lirica proponendo un’inedita lettura del Don Giovannicome «archetipo delle ambiguità dell’odierno Me Too».
«Contro di lui si scagliano tutte. A cominciare da Zerlina che, come un’attricetta in carriera, è pronta a tradire il marito il giorno delle nozze sperando in un’ascesa sociale, salvo poi tirarsi indietro e denunciare il seduttore importuno. E così pure Donna Anna e Donna Elvira, sempre in bilico tra passione mai sopita e voglia furibonda di fargliela pagare». Una girandola di femmine inviperite in cui il povero libertino si destreggia come può. «Un maschilista? Forse un tempo, oggi lo vedo più un etero/omo annoiato da troppe donne che gli hanno portato solo guai. Così alla fine meglio Leporello, il solo a conoscerlo davvero, sempre e comunque dalla sua parte».
E che direbbe Don Giovanni dell’attuale Me Too della lirica? «Di sicuro si divertirebbe un sacco. La lista degli imputati su questo fronte è più lunga del suo famoso catalogo. Se la sono presa con un paio di direttori, ma vogliamo parlare dei cantanti? Bassi, baritoni, tenori... Hanno da tremare in molti. Magari anche qualche diva di potere... Il Me Too al maschile sarebbe una bella sterzata». In ogni caso Stinchelli sta con Don Giovanni. «Sprofonderà all’Inferno come da copione, ma troverà delle belle diavolesse con cui spassarsela».
Un Inferno a cui Stinchelli è certo destinato, visto che prima del Don Giovanni avrebbe dovuto mettere in scena, sempre al Filarmonico, Mefistofele. «Tutto pronto, regia, scene, costumi, quando una telefonata mi avvisa: non si può fare. Il neo decreto Dignità proibisce l’utilizzo degli aggiunti necessari all’opera di Boito». Cambio di cavallo in corsa, ed ecco che Mefistofele diventa Don Giovanni. «Per fortuna avevo dei bozzetti già pronti per una produzione di Catania, ho fatto di necessità virtù. In quattro giorni ho imbastito un nuovo spettacolo, agile, dinamico, che unisce la grande tradizione, le scene di Ezio Antonelli, i meravigliosi costumi di Maurizio Millenotti, con le magie delle nuove tecnologie digitali. Un modo per abbattere costi insostenibili in tempi di crisi».
L’ouverture ci proietta nel «teatro nel teatro», con i macchinisti in scena e la sagoma del Commendatore che si staglia tra tuoni e fulmini. Finché Leporello fa sgombrare tutti per lasciar spazio a un tempio in parte reale, in parte costruito su immagini. «Ho tenuto presente la lezione dello scenografo Gianni Quaranta: quando lavori con le proiezioni bada sempre che ci sia qualcosa di costruito sul palco. Senza scordarmi quella del maestro Zeffirelli: il dettaglio è tutto».
Infine evviva la lirica, l’amore di tutta la vita, da coltivare come una delle ultime frontiere di resistenza culturale. «Chi dice che è in declino non ci mette mai piede. A mortificarla sono le troppe ridicole attualizzazioni. Per ridare linfa all’opera servono idee, non finti scandali ad hoc».