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Intervista ad Alessandro Borghi: «Per amore di Roma ho imparato il latino e mangiato nel fango»
Alessandro Borghi è il carismatico e selvaggio Remo in Il primo re di Matteo Rovere, film da nove milioni di euro in sala il 31. Girato sui monti Simbruini e Lucretili, tra pioggia e fango, sangue e violenza, racconta la mitologica nascita di Roma attraverso il rapporto tra i due fratelli Romolo e Remo, uniti dall’amore e dal bisogno di trovare una terra, divisi dal diverso rapporto con il divino, fino alle tragiche conseguenze.
Borghi, come ci si prepara per un film così?
«Ci vuole tempo, in Italia spesso non ne abbiamo: Matteo mi ha fatto la proposta cinque mesi prima. Era uno dei momenti più complessi della mia carriera, madrino a Venezia, poi questo set e quello di Sulla mia pelle. Grande pressione, una figuraccia su tre era matematica. Il primo ostacolo è stata la lingua. Non ho mai studiato latino, scuole classiche zero. All’inizio dubitavo, oggi non potrei pensare a questo film se non in protolatino, che ti permette di abolire i filtri del giudizio, entrare nella storia».
Come lo ha imparato?
«Come per la voce di Stefano, non mi metto a studiare ma ascolto in continuazione, anche di notte, file registrati in cuffia, frasi in protolatino con cadenze e accenti. Ho continuato a farlo a Venezia, al Lido, correvo la mattina con le cuffie, tornavo e sapevo la lingua. Il metodo Borghi».
Sul fronte fisico?
«Un set talmente faticoso a cui si poteva sopravvivere solo stando uniti: undici uomini mezzi nudi sono diventati squadra. Ad agosto dico agli altri: ragazzi, niente vacanze, tutti in preparazione. Faccio affittare a Matteo un capannone a Capannelle, cinque ore di allenamenti al giorno. Spada, lotta. Ho studiato anche come uccidere un cervo. Ma poi sul set, nudo sotto la pioggia, il freddo che serrava la mascella, ho pensato di non farcela. Alla fine mangiare per terra è diventato normale, nella scena della gabbia ci dividiamo un pane “a ripetere”, in gergo significa che dopo tanti ciak ci mangiavamo del pane sporchissimo. All’inizio ci lavavamo la sera, ma poi la mattina alle sei dovevamo rinfangarci per un’ora. E allora niente doccia. La sera mi mettevo l’accappatoio e mi buttavo a letto. Nel primo albergo in cui siamo andati ci hanno fatto pagare le lenzuola, c’era una Sindone di fango».
Mai pensato di mollare?
«Quando mancavano due settimane ho toccato il fondo. Non avevo forza per tuffarmi, cascare da cavallo, picchiarmi con trenta persone. Giro un lungo piano sequenza, ci sono i miei genitori sul set. Mia madre si mette dietro il monitor e mi dice: “Incredibile che vedi una cosa enorme, poi sposti lo sguardo sulla realtà ed è semplice”. Mi ha aperto un mondo: l’idea che con cose semplici possiamo fare cose grandi, se sappiamo raccontare. Dopo tre settimane sarei stato messo a letto per fare Cucchi, e ora ero lì con la pelliccia a fare a spadate: sono consapevole della mia fortuna. Ed è questa la battaglia con le nuove generazioni. Ora va di moda dire “io non volevo fare l’attore, è capitato...”. Allora non lo fare, che ci fai un favore a tutti….».
Lei di gavetta ne ha fatta molta.
«E la auguro a chi fa subito tre film da protagonista, è pagato per sei mesi di preparazione e non la fa. Non va bene».
Il cinema di riferimento per questo film?
«Valhalla rising e Revenant: non per ispirarmi, ma per farmi venire la voglia. Ma se questo film lo avessero fatto gli americani, tra muscoli scolpiti e pettinature sarebbe stato un disastro. Viking è figo, ma dove vanno a farsi le treccine e il doppio taglio?».
“Il primo re” racconta il rapporto tra i due fratelli, lei e Alessio Lapice, e la loro diversa concezione del divino.
«Sì, è il dilemma, piuttosto attuale, tra l’accettazione del dio o l’essere padroni del proprio destino. Quanto sei disposto a lasciare che il Dio-fuoco di allora o la Chiesa di adesso decidano per te? Quando succedono cose che ti paiono straordinarie pensi che era scritto, ma accettare il destino significa togliere il merito a sé stessi».
È anche un film sulla fondazione di Roma.
«Io sono un romano radicato ma atipico, non sono da “Roma mia bella”. Mi interessa come reagirà il pubblico. Se verrà a vedere questa cosa nuova, se vedrà solo l’azione o se proverà a capire di più. Siamo lontani da serie come Spartacus, per cui feci i provini. Il nostro è un cast pasoliniano, c’è una formidabile schiera di attori di teatro. Mi spaventa un po’ l’idea di come reagiranno al film i fomentati che nella fondazione di Roma vedono una cosa legata alla politica. Questo paese ci riserva brutte sorprese, speriamo bene».
La sua nuova sfida si chiama “I Diavoli”, la serie Sky tratta dal best seller di Guido Maria Brera.
«Altra sorpresa della mia vita: una serie da protagonista con Patrick Dempsey sulle guerre finanziarie. Tecnicamente la cosa più complessa che ho fatto. Devo parlare con l’accento british di alta finanza, Bpt e bond. Non potevo dire di noi a Nick Hurran, non dopo aver visto la sua serie Sherlock. Abbiamo parlato moltissimo, al provino mi ha fatto i complimenti. Ma perché mi abbia scelto al posto dei duecento inglesi che volevano il ruolo davvero non lo so».