Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  gennaio 25 Venerdì calendario

Intervista a Howard Jacobson

Howard Jacobson si fa trovare nel suo bar preferito di Soho, l’effervescente quartiere di Londra dietro Piccadilly Circus dove ancora oggi, a 76 anni, vive con la moglie in una stellare penthouse. Eppure tutti i suoi colleghi, da McEwan a Ishiguro, sono scappati nelle appartate oasi della Londra bucolica. Lui no. «Oh, adoro la vitalità di Soho, non potrei mai vivere altrove», dice lo scrittore inglese dalla chioma brinata e insolente, nato a Manchester e premio Man Booker con L’enigma di Finkler,che ritorna in libreria grazie alla Nave di Teseo (trad. di Milena Zemira Ciccimarra, pagg. 479, euro 19). Un romanzo sommo, che ha per protagonisti l’ebreo anti-israeliano Sam Finkler, l’altro ebreo 90enne ultrasionista Libor e poi il dissociato Julian Treslove. Il quale ebreo non è, ma allo stesso tempo è fatalmente attratto dalla “Jewishness” e dalla sua cultura, tanto da autoconvincersi di aver subìto un attacco antisemita.
L’enigma di Finkler è un’opera che affronta il tema dell’identità ebraica con una rara intensità e all’autore è valsa l’etichetta di “Philip Roth inglese” per humour, ebraismo autocritico e una certa ossessione sessuale. «E poi, L’enigma di Finkler ha un legame fortissimo con l’Italia».
Come mai, Jacobson?
«Anni fa non ero famoso nel vostro Paese, ma la casa editrice Cargo e la sua direttrice Milena Zemira Ciccimarra avevano puntato molto su di me. Prima che L’enigma di Finkler arrivasse in finale del Booker nel 2010, ero stato invitato dalla Comunità ebraica di Roma insieme ad Alessandro Piperno. Ero sicuro che non avrei mai vinto il premio, quindi il volo per Roma il giorno dopo era il mio premio di consolazione».
E invece quella sera lei il Booker lo vinse.
«Eh già! Dovetti rinunciare a Roma e un po’ mi spiacque perché l’affetto del pubblico in Italia è unico. A Mantova i ragazzini fanno la fila per farsi autografare il romanzo da me.
In Inghilterra, ad ascoltarmi viene al massimo gente più vecchia di me.
Ho paura a farli ridere, metti che gli venga un infarto…».
Da dove nasce Finkler?
«Ero molto preoccupato per come gli inglesi parlavano di Israele. Percepivo pregiudizi terribili nelle loro parole e ciò mi inquietava. È una paura che ho ancora oggi, perché gli errori di Israele sono diventati il pretesto degli antisemiti e questo fenomeno qui è peggiorato con l’inconscio antisemitismo del leader laburista Jeremy Corbyn. Perciò ho voluto drammatizzare questo dibattito nel romanzo, in un intreccio di brillanti e appassionate conversazioni tra tre uomini: due ebrei spesso in disaccordo e un non ebreo, mio eroe del libro».
Quest’ultimo, Julian Treslove, è attratto dall’ebraicità, dalla “Jewishness” degli altri due protagonisti, ma non religiosa, bensì culturale, sociale.
«Esatto. Io non sono un ebreo religioso, non vado in sinagoga, non mangio kosher, ma parlo di Jewishness tutto il tempo. Sono attratto dall’essenza intellettuale ebraica, dalla sua tenacia discorsiva, dalla natura dialettica dell’ebraicità. Amo discutere e ribattere all’infinito, che difatti fa di molti ebrei degli avvocati. Anche nello studio del Talmud, c’è sempre una discussione infinita tra i rabbini e gli studenti. È meraviglioso. E poi mi piace il materialismo ebraico: se Gesù entra nel tempio e caccia i mercanti, per un ebreo invece spiritualità e materialità coesistono sempre».
E poi c’è lo humour ebraico, unico nel suo genere.
«Già, perché è così fatalistico, tragico… gli ebrei sanno che la vita non è divertente ed è così che vengono fuori le battute migliori, grazie all’amarezza e al pessimismo. Anche se ci sono alcune cose che non mi piacciono della Jewishness».
Per esempio?
«Negli anni ’80 Philip Roth visse per un po’ a Londra. Ma non gli piaceva: pensava fosse una città molto antisemita, come raccontò anche nel suo romanzo Controvita (1986), quando l’ebreo entra in un ristorante londinese e una donna non ebrea chiede di far aprire le finestre per far uscire la puzza. E poi Roth non apprezzava la comunità ebraica inglese. Li considerava tutti pavidi, filistei. Per lui non avevano il coraggio, la vivacità, lo spirito degli ebrei americani. E aveva ragione!».
Ma perché?
«Gli ebrei americani sono subito stati parte integrante della cultura e della vita degli Stati Uniti, come raccontò anche Henry James a New York, temendo tra l’altro che lo yiddish potesse contaminare l’inglese. Qui, Oltremanica, è diverso: gli ebrei vennero cacciati nel 1290 da Edoardo I e fu Oliver Cromwell a riammetterli solo quattro secoli dopo. Ritornarono in silenzio, timidi, con estrema discrezione e questo ha segnato per sempre l’indole e il comportamento degli ebrei inglesi: i miei genitori da piccolo mi dicevano sempre di fare meno rumore possibile e rimasero sconvolti quando pubblicai i primi libri, perché mi stavo esponendo. Ma essendo un ragazzo ebreo della classe operaia dell’Inghilterra del nord volevo dimostrare quanto bravo potessi essere anch’io con l’inglese, anche se per molti ero solo uno “zingaro”».
Ha mai incontrato il suo “alter ego” Roth?
«Una sola volta, a una festa a Westminster a casa di Jerome Epstein, il produttore di Charlie Chaplin. Io avevo pubblicato i miei primi due romanzi, non ero famoso. Tuttavia, ero già stato paragonato a Roth, ma gli americani che preferivo erano Heller e Bellow, e in ogni caso la mia letteratura è molto inglese e ha radici in Dickens, D.H. Lawrence, Jane Austen. Comunque, strinsi la mano a Roth e lui mi disse un freddo “hello” e andò via. Ci rimasi male. Pochi secondi dopo arrivò la sua compagna Claire Bloom e fu molto più calorosa: “Ciao, che bello rivederti”. E io: “Ciao, ma… noi non ci siamo mai conosciuti”. “Mah”, fa lei, “strano!”.
Dopo mezz’ora Claire torna da me: “Ora ricordo dove ti ho visto! La tua faccia è sulla copertina di due libri che Philip ha sul comodino!”».
E allora perché Roth fu così freddo con lei?
«Non l’ho mai saputo. Forse era invidioso del mio talento? O forse non gli piacevano i miei libri? Non so. Per il resto ho provato a rivedere Roth, ho scritto sempre molto di lui sui giornali quando era in vita, recensioni, ritratti… Ma niente: non mi ha più rivolto la parola».