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 2019  gennaio 25 Venerdì calendario

Che spettacolo la scilla di mare

In questi giorni di Matera si fa e giustamente un gran parlare: nel vorticoso tourbillon di proposte, consiglierei di attraversare la gravina e disperdersi per un poco nella Murgia lì di fronte. In fondo «cultura» non è solo quella messa a lustro in mostre ed eventi, la si può respirare nell’aria, tra le tracce di quel che resta, silenziosa e un po’ nascosta. La storia di Matera (la sua testimonianza, la sua lezione) sta anche in quelle garighe brulle, desolate e calcaree, tutte sassi e cavità, in quei magri, poveri pascoli fitti di Stipa austroitalica, detta «lino delle fate», d’austera ed evanescente bellezza. D’estate naturalmente, ora non si vedono che i cespi verdi bluastri degli asfodeli e soprattutto i lucidi e turgidi foglioni dell’Urginea maritima a perdita d’occhio. L’effetto è altrettanto affascinante, un segno palese e inatteso di vitalità rispetto ai grigiori d’intorno.
Per gli asfodeli è quasi tempo, mentre per l’Urginea, che una volta si chiamava scilla e ora a volere essere rigorosi Drimia maritima, siamo agli inizi: sono foglie nuove e si vede, spuntate ad autunno inoltrato, fresche di piogge e di neve. Per lei lo spettacolo si svolge in due atti: d’inverno le foglie, grosse e coriacee che già bastano a tener scena, poi con i caldi di giugno un lungo intervallo nel quale tutto scompare. Bastano le prime piogge settembrine ed ecco innalzarsi d’improvviso gli altissimi steli, anche oltre il metro, uno per bulbo, e lunghi racemi di fiori bianchi che si aprono a partire dal basso, giorno dopo giorno quasi per un mese. Visitare la Murgia in quel periodo immagino valga davvero la pena... Poi a poco a poco nascono le foglie nuove e tutto rincomincia. 
La strategia non fa una piega: abituata al solleone del Mediterraneo, alle estreme aridità dei terreni in cui cresce, l’Urginea immagazzina finché può nel suo maxi-bulbo, anche 25 cm di diametro, prima del letargo estivo. Così grazie al suo grande «serbatoio» può passare indenne i caldi, spesso persino gli incendi da troppo secco (e da molto dolo), per poi dare il meglio di sé quando le condizioni tornano favorevoli. Con gran tripudio di api & C. Studi dimostrano che dopo dieci anni fuori terra il suo bulbone è ancora vitale. La pianta, come anche l’asfodelo, non serviva al pascolo, anzi gli animali la evitavano perché tossica, tanto che i pastori d’un tempo ne trituravano il bulbo, quello della varietà U. m. Rubra, e mescolandolo a qualcosa di buono lo usavano come esca per i topi. Già i compendi medievali elogiavano la sua portentosa efficacia ratticida... 
Al contrario di quel che il nome lascerebbe intendere, non cresce soltanto lungo le coste, ma anche negli entroterra più temperati: in Basilicata, come un po’ in tutto il nostro Sud, e anche in Liguria dove pare fosse antica usanza piantarne qualche cespo al piede dei fichi. Vecchi racconti giardinieri sostengono che le talee del fico stesso venissero conficcate nel grande bulbo della scilla di mare prima di essere messe in terra: così i suoi veleni «immunizzavano» la ferita e la proteggevano da futuri attacchi. 
Anche nel Maghreb è pianta diffusissima: si dice che prenda il nome proprio dalla tribù dei Beni Urgin, sulle coste dell’Algeria, dove fu per la prima volta approfonditamente studiata. Ricordo di averla vista in Tunisia piantata in lunghe file ordinate, una dietro l’altra, a detta delle persone locali per meglio segnare le parcelle ed i loro confini. Dunque trapiantarla è possibile e anche coltivarla in giardino, ma ci vuole un contesto adatto, che richiami almeno un poco il selvatico, non è certo pianta da aiuola o da bordino: magari un vecchio uliveto, un prato assolato ed arido, qualche gruppo di bulbi qua e là come se sempre ci fossero stati. Occorre molto sole, un terreno che dreni facilmente, che rimanga secco e indisturbato d’estate: i bulbi vanno poco interrati, anzi spesso amano sporgere un po’ sul livello del terreno, come gli amaryllis per intenderci. 
A chi vuole provare rivolgo un’appassionata preghiera: andate soltanto da vivai di fiducia, assicuratevi che i bulbi non siano stati depredati in natura. Sempre più spesso le nostre coste vengono saccheggiate da persone senza scrupoli, da veri e propri vandali che si fingono vivaisti, ma che in realtà sono soltanto loschi affaristi. A volte la quantità è già un buon indicatore: centinaia di scille di mare e tutte insieme dovrebbero destare sospetti. Altrimenti che senso avrebbe fare dei nostri amati giardini un’esibita bandiera di ecologia e sostenibilità?