ItaliaOggi, 24 gennaio 2019
Lager femminile senza ritorno. Il racconto di chi ha vissuto la terribile esperienza
Vicende poco conosciute ma non per questo meno importanti e meno eroiche. Il giorno della memoria (il 27 gennaio, con migliaia di iniziative) serve anche a riportare alla luce chi pagò con la vita la sua opposizione al fascismo e alle leggi razziali, italiani finiti nei campi di concentramento o perché ebrei o perché avevano cercato di difendere gli ebrei o perché erano oppositori di un regime totalitario. Eccolo, uno di questi episodi, il tassello di un mosaico che è utile ricordare e soprattutto fare conoscere a chi non ha vissuto quel periodo, che a poco a poco si allontana ma di cui non va disperso il valore (che va al d là di ogni coloro politico). Il 24 febbraio 1944 a Bologna vengono arrestati una ventina di lavoratori dell’Oare, l’officina di riparazione degli automezzi dell’esercito, appartenenti a un comitato antifascista. In casa di uno di essi, Adelchi Baroncini, la Gestapo scopre una stamperia clandestina, con materiale contro l’occupazione tedesca e a difesa degli ebrei. Tutta la famiglia, oltre ad Adelchi, la moglie Teresa e le figlie Lina, Jole e Nella, è catturata. In una stanza del comando delle SS una delle ragazze, Lina, è costretta ad assistere alle torture inflitte al padre: «L’avevano legato alle mani e ai piedi e lo tiravano su e giù con una carrucola...». Tutti saranno poi deportati, il padre nel castello-prigione delle SS ad Hartheim, vicino a Mauthausen, moglie e figlie nel campo di concentramento Ravensbruck. Dei cinque componenti la famiglia solo due, le figlie Nella e Lina, torneranno a casa.
Questa è la descrizione della partenza verso la Germania: «Si richiusero gli sportelli dei carri bestiame con dentro tutti, quasi congelati per essere stati tante ore ad aspettare il treno. Dentro eravamo fitti come le bestie in viaggio al mercato. Molti si lamentavano e piangevano, chi veniva da lontano, stretto nell’indecente spazio fin dal giorno prima, si sentiva meno, ché ormai gli mancavano la voce e il fiato. C’erano anche dei bambini, e quelli urlavano invece più forte. I bambini sono gli ultimi a tacere. È brutto che tacciano. Spesso lo fanno soltanto quando stanno per morire».
La madre fu la prima a morire. Stava male ma nel campo si evitavano i dottori perché tendevano a sbarazzarsi di coloro che non si reggevano in piedi. Lei fece il miracolo di camminare finché poté, ma a un certo punto si voltò con la testa verso l’angolo più buio della baracca, disse «basta» e chiuse gli occhi per sempre.
Nel 1978 Primo Levi si occupò del racconto della drammatica avventura della famiglia da parte delle due superstiti e commentò: «In queste parole affiora il dolore più atroce, quello che si prova per i familiari che ti muoiono davanti, giorno per giorno, al di là di ogni possibile soccorso».
Levi si riferiva, tra l’altro, al racconto di Nella Baroncini: «Arrivati al campo, non ci volle molto a capire la realtà: tutt’attorno vedemmo subito masse di donne di ogni età ridotte a pelle e ossa. Ci fecero la doccia, poi ci denudarono tutte, ci passarono in rassegna, ci diedero due stracci per coprirci un po’, ci misero nelle baracche e ci numerarono; io avevo il numero 49553. Ci ammalavamo tutte. Ci dissero che eravamo già state destinate ai forni crematori e non c’era che da aspettare il turno, ormai vicinissimo: non volevano lasciare testimoni. E invece una mattina sentii un gran trambusto fuori e infine arrivarono i russi. Era il 30 aprile 1945».
La sorella Jole Baroncini morì in un forno crematorio. Aveva 28 anni. Era riuscita qualche tempo prima a fare avere un biglietto alla sorella Nella: «Quando finirà dunque questa maledetta guerra, quando verrà quel giorno che ci troveremo alla nostra sgangherata tavola, ma ben apparecchiata? Se avremo fortuna di ritornare tutti, mamma e papà non dovranno più lavorare, noi siamo giovani, ci rimetteremo presto e lavoreremo, essi avranno tanto bisogno di riposo».
Ravensbrück era soprannominato l’«inferno delle donne», fu il più grande campo di concentramento femminile della Germania nazista: dalle 867 prigioniere del maggio ’39 si giunge alle 45 mila verso la fine della guerra. Durante questi sei anni furono immatricolate 125 mila donne, di cui 95 mila non fecero ritorno a casa. 870 bambini vennero al mondo nel campo, solo in 15 sopravvissero all’internamento. A partire dal 1941 le prigioniere vennero impiegate nell’industria bellica tedesca che grazie a un accordo commerciale con le SS poteva contare su una manodopera a basso prezzo (il compenso per il lavoro veniva intascato direttamente dalle SS) e totalmente priva di diritti, quindi con turni massacranti di 12 ore anche notturni. Racconta Nella Baroncini: «La sveglia era alle tre e mezza di notte e, dopo il lungo rito dell’appello, si andava al lavoro fino alle otto di sera. Come cibo ci davano, a mezzogiorno, un mestolo di brodo di rape, una sottilissima fetta di pane nero e alla sera quasi niente: quando andava bene c’era una patata bollita. Non ce la facevamo a resistere a restare in piedi, a volte anche tre ore, per l’appello della mattina con 18 gradi sotto zero: anche i capelli si gelavano».
Dopo tanti patimenti avvenne il ritorno (insperato) a casa. Ma non senza problemi: Lina Baroncini alla liberazione pesava trentacinque chili e soffriva di una pleurite bilaterale. Tornata a Bologna si ritrovò in una casa ormai vuota e vedrà il ritorno solo di sua sorella Nella: «Ho continuato a sognare mia sorella Iole e i miei genitori che tornavano e si presentavano alla porta, per anni e anni e anni. Passavo le notti sveglia, pensavo alla famiglia, alla casa, a quello che era una volta».