24 gennaio 2019
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Biografia di Carlo Cecchi
Carlo Cecchi, nato a Firenze il 25 gennaio 1939 (80 anni). Attore. Regista teatrale. Vincitore di cinque premi Ubu, tre dei quali al miglior attore (Il misantropo, 1986/1987; La storia immortale, 2002/2003; La serata a Colono, 2012/2013) e due alla migliore regia (Finale di partita, 1994/1995; Misura per misura, 1998/1999). «È considerato l’attore-autore di teatro più innovativo e seminale dopo Carmelo Bene. L’incedere controllato e meccanico, la dizione impervia e ostica, l’aria assente, ironica, aristocratica con cui serve battute e testi classici hanno la loro origine in una formazione che ibrida il Living Theatre ed Eduardo, la sceneggiata e Pinter, Shakespeare e il Teatro dell’assurdo» (Mario Sesti). «Il teatro non è ripetizione: è movimento» • «Sono rimasto orfano di padre a 10 anni. […] I miei primi ricordi sono quelli della casa della mia balia: mi hanno portato via da lei quando avevo due anni. È il dolore fondamentale della mia vita. Le altre perdite non sono state che ripetizioni di quella» (a Giulia Calligaro). «Mia madre, rimasta vedova, dovette rimettersi a lavorare. Faceva la modista, e ricordo che in casa a Firenze ricevevamo una rivista parigina. Si chiamava Chapeaux, “cappelli”. Lì prendeva idee per le creazioni, che le signore fiorentine acquistavano con slancio. Ogni tanto mi chiedeva di provare i cappelli, e io, adolescente, per farlo esigevo denaro. Lei protestava, ma alla fine me lo dava. E tanto, pure, poverina». «Uno dei primi giochi che ricordo era quello di “fare la Messa”; il gioco della Messa consisteva nel fare il prete che celebrava la Messa seguendo un canovaccio molto elementare. E questo gioco faceva presagire male: non che da grande volessi fare il prete, come prendendo la cosa alla lettera doveva temere mio padre, ma che volessi fare l’attore, visto che ripetevo come gioco il primo teatro a cui avevo partecipato, appunto la Messa». «Parigi, città molto amata dalla madre e dal giovane Carlo, costituisce la meta di frequenti viaggi giovanili; nel capoluogo francese Cecchi verrà a contatto con le grandi esperienze del teatro europeo (è a Parigi che vede Madre coraggio del Berliner Ensemble nel 1960). Tuttavia “il presagio si avverò quando, verso i quattordici anni, scoprendo il teatro vero e proprio, mi ci immedesimai così fortemente da decidere, subito e senza scampo, di voler fare l’attore”. Maturando con sempre maggiore convinzione l’interesse nei confronti del teatro, alla fine degli anni Cinquanta Cecchi decide di lasciare Firenze. Nel 1958 parte dunque, migrante al contrario, per un viaggio verso sud che lo porterà prima a Roma, dove tenta senza successo l’esame d’ammissione all’Accademia d’arte drammatica Silvio d’Amico, e subito dopo a Napoli, città […] nella quale trascorrerà il 1959, iscrivendosi al corso di Lingue e Letterature straniere dell’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. […] Il giovane Cecchi, tuttavia, ritenta l’anno successivo l’esame d’Accademia, con esito positivo. Lo shock napoletano è però in lui troppo vivo, e l’Accademia risulta subito […] un’istituzione ingessata» (Chiara Schepis). «Ero un allievo dell’Accademia piuttosto problematico. Il paradigma della recitazione che veniva insegnata non mi convinceva. Si fondava su rimasticamenti di intonazioni medie precedenti. Una convenzione stantia, quasi in decomposizione, che tuttavia veniva ancora trasmessa. Anzi, imposta. Ebbene, caso volle che io andassi a Napoli per fare l´università e dunque mi imbattessi nel teatro napoletano, che non vuol dire automaticamente Eduardo. Parlo di un teatro popolare allora ancora molto attivo. Si facevano sceneggiate e varietà, con attori straordinari. E io, che già buttavo sull’intellettuale e studiavo Brecht e Mejerchol’d, ritrovavo le loro teorie incarnate da quegli attori. Cosa che di certo non accadeva al Piccolo, con tutti quei birignao epici. Nel frattempo mi imbatto nel Living: altre voci, altre istanze. Voci che mi fanno perdere la capa, malgrado non mi convincesse un’eccessiva libertà degli attori e un’organizzazione claustrofobica, da setta» (a Franco Marcoaldi). «Fu allora che presi sul serio il disordine di quegli anni. L’incontro con il Living Theatre, lo vissi come uno shock, alimentato dall’uso delle droghe. […] Erano gli anni lisergici. Questo richiedeva una certa attenzione per evitare che la cosa degenerasse nella moda dell’Lsd esplosa in America. Ma sono certo che non sarei diventato quell’attore che oggi sono senza quelle sperimentazioni sul mio corpo»» (ad Antonio Gnoli). «È a quel punto che incontro Eduardo, il quale mi invita a interpretare Felice Sciosciammocca. Ma io non sono napoletano, obietto. Fa niente, dice lui. Da allora ho incorporato la tradizione napoletana, incrociandola con l’esperienza del Living». «Già sotto la firma informale di Granteatro, nel 1969, Cecchi è impegnato per la prima volta anche come regista nell’allestimento del Woyzeck di Büchner, messinscena programmata dal Teatro Gobetti di Torino» (Schepis). «Prima esperienza del collettivo Granteatro: quanto contò in quella vicenda l’aspetto battagliero? “Moltissimo, a partire dal nome. Avevamo un padrino e una madrina d’eccezione: Eduardo ed Elsa Morante. Il nome proposto da Eduardo mi fece rimanere un po’ sgomento: ‘I Ruspanti’. Elsa invece disse: perché non lo chiamate “Il Granteatro”? Il Piccolo c’è già…»» (Marcoaldi). «Cecchi si immerge nella compagnia eduardiana, collaborando con essa in senso stretto. È coinvolto come interprete nel progetto di messinscena, poi posticipato, de Il monumento di De Filippo ed interpreta la parte di Federico in Sabato, domenica e lunedì (1969), svolgendo anche la funzione di assistente alla regia, così come è assistente alla regia per la riproposta di Le voci di dentro, sempre del 1969» (Schepis). «“Però un conto era Eduardo fuori dal teatro e un conto era Eduardo capocomico. Lì cominciarono le frizioni. Il nostro rapporto non poteva che finire in modo conflittuale, se pensa poi a quant’ero giovane… E il conflitto lo risolsi nel peggiore dei modi. […] Sparii e gli mandai un telegramma: “Non torno più”. Era il 1969, facevamo Sabato, domenica e lunedì. Non s’immagina quanto me ne sia pentito. Per un po’ di tempo evitai d’incontrarlo. Angelica Ippolito, che era rimasta in compagnia, mi fece sapere che minacciava azioni fisiche: ‘Lo strappo ’e mazzate’”. Ma alla fine ricomponeste. “E lui fece come se niente fosse”» (Egle Santolini). «Dopo Eduardo De Filippo, che ha saputo dirgli “recita in napoletano” e liberarlo dal peso delle scuole (esordì con lui, e i suoi primi passi di attore-regista furono memorabili messinscene delle farse di Petito), è tra il sodalizio con Elsa Morante e […] quello con Garboli che il teatro di Cecchi si è evoluto. “Elsa aveva una sensibilità teatrale gigantesca. Era la mia consulente principale e mi ha assistito nel passaggio da Petito a Brecht, Majakovskij, Büchner, quando le influenze che subivo erano soprattutto dell’avanguardia russa – Mejerchol’d, Vachtangov –, e prima che arrivassi ai tre moderni che ho rappresentato di più, Beckett, Pinter e Bernhard. Ma era lei a insistere perché facessi Amleto. Diceva: ‘Il fatto stesso che resisti così tanto vuol dire che in realtà è quello che vuoi fare, e che però ti fa paura fare’. Ad Amleto sono arrivato timidamente grazie alla traduzione di Garboli, che già mi aveva indirizzato verso Molière. Fu lui a spingermi verso Il borghese gentiluomo: ‘Guarda che Molière non è quello che ti hanno insegnato all’Accademia’, mi diceva. Dal Borghese gentiluomo in poi, una rivelazione. Ma anche Shakespeare… È un tale piacere fare Shakespeare! E l’attore deve pur godere, no?”» (Goffredo Fofi). Nel 1980, «con l’ottenimento della sede stabile al Teatro Niccolini di Firenze, co-diretto dallo stesso Cecchi e da Roberto Toni, si apre quello che può essere definito il “tempo del magistero”; l’attore-regista, ormai nel pieno della sua maturità artistica, comincia a prendere consapevolezza del suo ruolo: è un maestro d’attori. […] Ricorrenti sono i testi di Molière, Pinter, Bernhard, Büchner, il preludio a Shakespeare, attraverso La tempesta (1984) e Amleto (1989), le incursioni nella nuovissima drammaturgia rappresentata da Nunzio di Spiro Scimone (1994) e infine lo straordinario spettacolo conclusivo sotto il segno di Beckett: Finale di partita (1995). Il Niccolini chiude nel 1995 a causa di gravi dissesti finanziari. […] A Palermo, […] scoperto il rudere di un teatro di prosa dell’Ottocento, Il Teatro Garibaldi del quartiere Kalsa, Cecchi […] nel 1996 comincia l’avventura della Trilogia shakespeariana, […] che vedrà l’attore impegnato con una compagnia d’eccezione, composta da volti noti del Granteatro e da giovanissimi attori, per le successive tre estati, nell’allestimento di Amleto al Teatro Garibaldi (1996), Sogno di una notte d’estate (1997), Misura per misura (1998). A settembre 1999 la Trilogia completa, della durata di otto ore, viene portata in tournée a Roma e poi a Parigi. […] Nel 2003 viene proposta a Cecchi la direzione artistica del Teatro Stabile delle Marche. […] Con Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello del 2003 (ripreso per ben quattro anni) comincia un periodo di fortunate produzioni: Tartufo di Molière (2007), il dittico Claus Peymann compra un paio di pantaloni e viene a mangiare con me di Thomas Bernhard e Sik-Sik, l’artefice magico di Eduardo De Filippo, poi ancora Shakespeare con una nuova versione del Sogno con gli allievi dell’ultimo anno della Silvio d’Amico (2010) e La dodicesima notte del 2014, sempre in compagnia di quei giovani attori. Nel 2013 l’attore-regista corona il proposito di lunga data di mettere in scena l’unico testo teatrale (mai rappresentato) dell’amica, dramaturg e consigliera Elsa Morante, La serata a Colono, che debutta con la regia dell’amico Mario Martone» (Schepis). Tra gli ultimi spettacoli portati in scena da Cecchi, ha destato particolare interesse l’Enrico IV di Pirandello. «In Enrico IV, […] Cecchi mette in scena sé come attore e sé come personaggio che va oltre il teatro, come individuo che pensa e soffre, che si agita e agisce dentro e fuori del ruolo che si è assegnato e dentro e fuori del sé. Si è sempre sbalorditi e ammirati da questa capacità, unica nelle nostre scene, di essere quello e di essere altro, di portare in scena, di mettere in scena, di recitare se stesso nel mentre che si è compiutamente anche l’altro, il personaggio inventato e scritto da Pirandello. E stavolta è come se Cecchi volesse dirci, in sostanza, che la vita è tremenda, ma che è tremendo anche il teatro; che il teatro, la messinscena, la finzione rendono a malapena sopportabile la vita, ma che anche il teatro fa parte della vita e non è che sia migliore della vita» (Fofi). «C’è, tra Carlo Cecchi e il teatro di Pirandello, un rapporto figlio-padre. Il figlio contesta i modi del padre, quel suo linguaggio antiquato, la compiaciuta, ridondante verbosità. Ma neanche per un attimo ne discute l’autorità. Per la terza volta Cecchi mette in scena Pirandello, e per la terza volta ne scrive un adattamento. La prima, nel ’76, fu L’uomo, la bestia e la virtù; poi, nel 2000, i Sei personaggi in cerca d’autore; ora è la volta di Enrico IV. […] Carlo Cecchi dice che questa volta è intervenuto sul testo "in maniera molto più radicale" delle altre. […] "Tutte le volte che ho fatto Pirandello si sono scatenate polemiche. Ci faccio poco caso. Trovo che sia giusto ridare nuova vita a un classico". Con Shakespeare non l’ha mai fatto. "E non lo farei. Però ho sempre avuto bisogno di una nuova traduzione – Garboli, Cavalli… –, di una nuova grande traduzione. Altrimenti non avrei potuto metterlo in scena"» (Laura Putti) • Più rare, ma comunque importanti, le sue interpretazioni cinematografiche. «Esordisce nel 1966 con A mosca cieca di R. Scavolini. […] Torna al cinema nel 1992 con Morte di un matematico napoletano di M. Martone, in cui tratteggia in modo memorabile l’angoscia intellettuale degli ultimi giorni di vita del matematico R. Caccioppoli. Da allora le sue apparizioni cinematografiche diventano più frequenti (La scorta, 1993, di R. Tognazzi; L’arcano incantatore, 1996, di P. Avati; Arrivederci amore, ciao, 2006, di M. Soavi) anche se il centro della sua vita professionale rimane sempre il teatro» (Gianni Canova). Tra le ultime pellicole cui ha preso parte, Seta di François Girard (2007), Io sono con te di Guido Chiesa (2010) e Miele di Valeria Golino (2013). È inoltre apparso in alcune miniserie televisive, tra cui Ultima pallottola di Michele Soavi (Canale 5, 2003) e Il papa buono di Ricky Tognazzi (Canale 5, 2003). «Il teatro è un ambito infinitamente più grande, ma ha più problemi del cinema. Lì l’assillo del pubblico non esiste. C’è la macchina da presa. È quasi meno frustrante. Non devi far finta che gli spettatori ci siano, e in realtà sono talvolta pochi. Lì devi vedertela con la cinepresa e basta. O la reggi o non la reggi. E pare che io me la cavi. Ma sono e resto un uomo di teatro. Si dice così?» • Celibe. «Gli attori veramente attori non hanno vita privata. Quelli che ce l’hanno, portano sulle spalle un fallimento». «Re Lear […] non posso farlo. Re Lear è troppo padre: io non mi ci sono mai sentito. Mai avuto rapporti con la paternità» • «Fin da ragazzo ho sofferto di noia. Pensi che Elsa Morante mi diceva: sai perché ti annoi? Perché sei noioso. La verità è che la noia per me è un vizio congenito. Un peso che sento ogni qualvolta mi accorgo che la vita è ripetizione. Alzarsi e fare le stesse cose è per me spaventoso. […] È la noia nel senso in cui la intendeva Baudelaire. Tanto è vero che cessa quando entro in teatro» • «La Morante, come l’ha conosciuta? “In relazione al Living Theatre, di cui entrambi eravamo grandi ammiratori. Era il 1965. Mi telefonò un giorno sottoponendomi un problema legato al Living e mi invitò a casa sua”. […] Che tipo di relazione è stata la vostra? “Di grande coinvolgimento. E c’entra molto il teatro. Elsa intuitivamente mi riconobbe un talento, senza avermi mai visto sulla scena. Era tipico di lei. Mi spinse ripetutamente, dicendomi che il solo modo perché io manifestassi quel talento era nel fare il mio teatro, senza aspettare o dipendere da alcunché”. Anche Cesare Garboli è stato vicino al suo teatro. “È vero. Ci conoscemmo nel 1968. Ma l’amicizia con Cesare nacque quando, dopo un pranzo con Elsa, lo accompagnai verso casa. Allora abitava in via Borgognona. Mi parlò a lungo di Molière e delle traduzioni che stava facendo. Era un uomo a suo modo fantastico. C’era in lui una vocazione di attore fortissima che aveva represso. O, meglio, in qualche modo, rifusa nelle bellissime traduzioni”. Cosa le manca di queste due figure? “In modi diversi sono stati un inno alla provocazione intelligente, al gusto culturale e allo stile tra classicità e stravaganza. Erano dotati di un’energia insolita”» (Gnoli) • «Non mi raccontino balle: il Piccolo di Milano, Strehler. No, decisamente. Il grande teatro della seconda metà del Novecento in Italia e in Europa è stato quello di Eduardo». «“Già negli anni Sessanta il teatro non si poteva più prendere sul serio. O almeno non nella maniera desiderata da Strehler e Grassi. Il loro brechtismo, in quegli anni vincente, tanto che io stesso ne rimasi contagiato, fu un tentativo di risolvere la crisi del linguaggio convenzionale”. Non capisco cosa le dà fastidio di quell’esperienza. “Il teatro dialettico che fa riflettere, non quello che commuove o fa ridere. Lo storicismo di sinistra volto a catechizzare le masse. L’idea del progresso. Questo mi dava fastidio. Poi è arrivato Beckett ,e ha fatto piazza pulita di tutto questo”» (Gnoli). «C’è un’urgenza nel fare teatro? “Se con ‘urgenza’ intende ‘dire un messaggio’, citando Majakovskij dirò che ’io non faccio il postino’. L’urgenza è il teatro stesso. Credo che fare teatro si esaurisca nel compierlo con la maggiore consapevolezza possibile, andare in cerca di quella magia che il teatro sa regalare: una festa, un rito, una realtà accresciuta dalla finzione, ma tutto sta all’interno del teatro, un gioco che ha come punti imprescindibili la parola, l’attore e il pubblico”» (Nicola Arrigoni). «Ho un legame profondissimo con questo Paese. Avendo avuto la fortuna di nascere qui, ho sviluppato una speciale sensibilità verso la bellezza, in tutte le sue forme. Anche se la parola “bellezza”, ormai, è sputtanata, inutilizzabile. E poi ho un legame profondo con la mia lingua. Io recito. E recito in italiano. Amo enormemente il teatro, e per farlo utilizzo uno strumento che è il mio corpo, che però si esprime verbalmente in italiano. Questa è la mia unica battaglia, anzi è mein Kampf! Di certo non partecipo al cosiddetto dibattito culturale, anche perché non mi pare ci sia alcun modo per azzardare orizzonti diversi da quelli imperanti» • «Sono diventato regista perché ero un attore problematico rispetto al teatro dei miei inizi. Erano anni formidabili per i gruppi teatrali; c’era il Living, c’era Grotowski. Io però volevo fare l’attore e non riuscivo. Questa mia impossibilità, l’ho presa come una mancanza degli altri. Sono diventato regista pensando: il teatro mi ritiene malato, e io mi curo da solo. In realtà mi sono sempre sentito paziente e medico». «La regia, cos’è? Il teatro ha tre ingredienti indispensabili: il testo, l’attore e il pubblico. Piuttosto che un regista, sono una specie di capocomico. […] I registi che vanno per la maggiore sono quelli che si sostituiscono al testo, che vogliono imporre la loro idea: lavorano per se stessi e non per il teatro, non per quello che accade in scena. Ecco: io lavoro per ciò che accade in scena, il mio compito è incoraggiare quell’accadimento magico e reale che è il teatro». «Il cosiddetto Grande Regista, tutto maiuscolo, ormai è già tramontato. Al pubblico non gliene fotte niente. E chi sa che non sia meglio» • «C’è stato il periodo in cui lavoravo con i miei coetanei: eravamo fratelli, c’erano scontri durissimi, ma anche la consapevolezza che condividevamo alla pari una medesima esperienza e idea di teatro. Poi c’è stato un momento in cui il mio ruolo con gli attori era una sorta di relazione fra un padre e i suoi figli. E in questo caso a volte gli scontri sono stati feroci e dolorosi, come può accadere fra un padre e un figlio. Ora… beh, questi ragazzi sono un po’ come dei nipoti e io il loro nonno, a volte un po’ burbero, ma pur sempre un nonno. Mi piace comunque lavorare con attori che conosco, anche se dopo l’esperienza del Living Theatre credo che gruppi troppo chiusi non facciano bene al teatro. Quella condizione era soffocante. Lavorare con attori di cui conosci le sensibilità è importante e aiuta, basta un’occhiata e ci si intende, ma innesti nuovi possono portare nuova energia e spunti». Ai giovani attori insegna, «“innanzitutto, ad ascoltare. Poi a dimenticare la parte. […] Se tu attore ascolti, e conosci la parte, dopo aver ascoltato farai in modo che la tua battuta nasca da sé, in quel momento. Naturalmente per ottenere questo occorre un grande training. Occorre abbandonarsi, e abbandonare la paura. E rischiare. Anche di non essere un attore”. Ci sono altri insegnamenti? “Sì, il più importante di tutti: bisogna essere capaci di creare, in scena, un rapporto fisico, non solo con la voce, ma anche con il corpo. Bisogna che si determini uno spazio triangolare. Lo dico sempre agli attori: dovete recitare pensando che il vostro partner sia sul palcoscenico e allo stesso tempo in mezzo al pubblico. Un triangolo, appunto. Fondamentale: perché dà plasticità, volume al teatro”» (Marcoaldi) • «Ciò che mettiamo in scena è un racconto, ciò che accade sulla scena, e in quel momento deve essere reale – attenzione: non realistico. Ma ciò che si dice e si fa in scena deve essere vero, con tutta l’ambiguità che la parola “verità” porta con sé. […] Ciò che accade in scena o andiamo cercando ogni volta che siamo su un palcoscenico, non so se mi spiego, è reale, non è finzione: accade lì davanti agli occhi di un pubblico che è portato a crederci, che vuole da noi l’intensità di un accadimento reale, di una relazione vera, di parole che dette hanno un senso perché chi le dice le fa sue, le ha capite e fatte proprie. L’arte è reale. Per me Rembrandt è realtà». «Sul palcoscenico accade qualcosa di reale, che ci strappa via da quel cancro assoluto e irreale rappresentato dall’informazione, la comunicazione, la rete. Sarò anche uno snob: ma faccio notare che il teatro è l’unica forma espressiva che sfugge alla trappola di internet. Sì, possono fare un video tratto da uno spettacolo e mandarlo in rete, ma questo non è teatro. Perché il teatro accade solo lì, in quella precisa unità di tempo e di spazio». «Quando il pubblico, che sarà pure rimbecillito, si trova di fronte a un evento teatrale immediato, ridiventa pubblico. Non sta in quella specie di penombra semiaddormentato» • «L’arte tutta, ma Shakespeare in massimo grado, ci avvicina alla realtà più profonda, nascosta, che si può conoscere soltanto attraverso l’immaginazione. E questo tesoro, malgrado tutto, non andrà perduto». «Shakespeare mi piace talmente che, se dovessi rinascere, vorrei recitare solo i suoi testi» • «Io vivo fra Roma e Parigi e trovo poco interessante quello che accade nei teatri occidentali. E poi a teatro ci vado poco, ma quando so che c’è una compagnia sudafricana, afghana o palestinese corro a vederla, perché lì, in quelle esperienze, trovo la vita». «È come se la vitalità europea si stesse spegnendo. E, siccome l’Italia rappresenta da sempre un rivelatore particolarmente sensibile dello stato di salute europeo, noi siamo in pole position. Sia nei momenti alti che nella frana attuale» • «È il più amato, il più bravo e il più orso degli attori italiani. Un artista sofisticato, con l’estro di sperimentare stando all’interno della tradizione teatrale nostrana e internazionale, un maestro che lascia l’impronta di sé in quello che fa, da Pinter a Shakespeare, da Eduardo a Beckett, o al cinema» (Giovanna Crisafulli). «Carlo Cecchi è un attore che rifiuta qualsiasi moda. Non predica la morale. Ha cultori affascinati e detrattori irriducibili. Da sempre, segue piste poco battute» (Rodolfo Di Giammarco). «Cecchi è attore e regista, e in quanto tale si fa co-autore, affronta Shakespeare come Pirandello certamente non mettendosi alla pari – ché conosce assai bene il compito dell’attore e del regista nei confronti di chi un testo lo ha scritto, se si tratta di un vero scrittore, di un vero poeta –, ma leggendoli con occhi di oggi e soprattutto con occhi suoi, personali» (Fofi). «Cecchi tende a nascondersi, a mettersi in ombra, a sparire negli angoli; a rattrappirsi; e là, nei suoi angoli, lascia che ondate sadomasochiste si scatenino, rovesciandosi con una violenza che si esercita e si abbatte contro di lui. Ho visto Cecchi ingobbirsi, curvarsi sotto i colpi di sferze inesistenti; e l’ho visto perfino impegnato, al centro del palcoscenico, nello sforzo meno appropriato per un attore, lo sforzo di rendersi immateriale» (Cesare Garboli) • «Io non vorrei più recitare, ma c’è quel buzzurro, quell’animale, che mi costringe. È un selvaggio, e non guarda in faccia a nessuno. Si sente bene soltanto su un palcoscenico. Il problema è che quell’altro non può fermarlo. Sono due. La deliziosa coppietta che mi abita. Uno vorrebbe restarsene in casa a leggere, studiare, ascoltare musica. Tranquillo, solitario, telefoni staccati. L’altro invece spinge, strattona, fa un casino del diavolo. Ha bisogno di recitare, ha bisogno di pubblico». «La vecchiaia restringe il campo delle possibilità: ci sono tanti ruoli che invecchiando non si possono più fare. Non posso più fare Amleto o Ivanov. Non posso più fare tante cose. Ma la verità è che il conto si presenta solo quando fisicamente non ce la fai più. Ma poi sarà vero? L’attore, penso, è un essere immaginario. Una fantasia del cielo o dell’inferno. Gettato per caso sulla terra».