Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  gennaio 24 Giovedì calendario

La maledizione del festival Fyre

Quando frequentavo le scuole medie, un insegnante particolarmente creativo decise di inculcarci il concetto di “fatica uguale risultati”, invitandoci a occuparci di qualcosa da settembre a maggio, con continuità, per poi osservare tutti insieme i risultati. C’è chi disse “scrivo un libro in questi mesi”, chi “io prendo un gattino e lo cresco”, chi giurò “imparerò a pattinare” e così via. Io che avevo un piccolo giardino, promisi “a giugno vi mostrerò il mio orto”. Feci comprare dei semi a mia madre, poi pensai ad altro. Tutti i mesi, per pigrizia, rimandavo la semina. Poi seminai e mi scordai di annaffiare. Poi il freddo uccise le prime piantine. Poi mi dimenticai di nuovo. Ad aprile, il mio orto, non esisteva, ma io ero convinta che in un mese avrei avuto piante alte come lampioni. Nel frattempo a scuola garantivo che avrebbero visto un capolavoro di botanica da far impallidire l’Amazzonia.
A due giorni dalla visita della classe nel mio orto, c’erano sei piantine sbilenche e un paio di fusti secchi dall’aria post atomica. Realizzai che avevo mentito per mesi convincendo pure me stessa delle scemenze che raccontavo e che la figura di merda era catastrofica e ineluttabile. E così fu.
Non ho più pensato a quella menzogna irrecuperabile e alla vergogna annunciata per 30 anni circa, finché non ho visto Fyre, il nuovo documentario di Netflix diretto da Chris Smith e co-prodotto da Vice Studios. Fyre è, sulla carta, la storia del più grande festival della storia che non c’è mai stato, ma è soprattutto, per chi lo guarda, un costante richiamo a quella sensazione di impreparazione e inadeguatezza che abbiamo provato una volta nella vita di fronte a impegni non mantenuti con totale incoscienza. Guardi Fyre e ti senti in ritardo su tutto. Su un lavoro da consegnare, su una telefonata da fare, su una bolletta da pagare. Sulla vita.
È la storia surreale di Billy McFarland, un giovane imprenditore con tratti di genialità e mitomania che decide di organizzare un gigantesco Festival musicale in stile Coachella ma versione lusso, su un’isola delle Bahamas appartenuta a Pablo Escobar, isola che dice di aver acquistato per 8 milioni di dollari. Per alcuni mesi promuove l’evento su Instagram invitando top model e influencer quali Emily Ratajkowski (25 milioni di follower) e Kendall Jenner (120 milioni di follower) sull’isola, per realizzare video promozionali e creare il brand “Fyre Festival”. Le modelle rilanciano l’evento sui loro account (pare che la Jenner abbia ricevuto 250.000 euro per un singolo post).
I video, tra tuffi in acque cristalline e chiappe sode di ragazze bellissime, diventano virali, l’attesa si fa spasmodica. La campagna coordinata di social influencer è così efficace che in sole 48 ore viene venduto il 95% dei biglietti a un prezzo base di 5.000 euro per arrivare a quello da 250.000 per il noleggio di uno yacht.
Billy (aiutato dai soci) continua a invitare modelle e a postare foto di spiagge e tramonti alimentando attesa e aspettative, mostra gli schizzi delle tende lussuose e delle ville sul mare in cui i partecipanti alloggeranno, va in tv a fare promozione, promette esibizioni musicali di artisti quali i Blink 182 e sorride sempre con quel suo sorriso stampato e innaturale da manifesto elettorale.
Nel frattempo rimanda le decisioni importanti, non avvia la macchina dell’organizzazione, sottovaluta le difficoltà nel mettere in piedi un festival su un’isola con 8.000 partecipanti previsti e, soprattutto, si rivela essere un immenso cazzone avariato. (cit.). E questo – il momento in cui capisci in quali casini si sta ficcando il Fabrizio Corona della storia – è il momento del documentario in cui ho cominciato a pensare al mio orto. Al pomodoro piantato troppo tardi, alle piante di fave che si erano seccate. Ho provato la stessa ansia, la stessa angoscia,
la stessa vergogna.
La situazione precipita velocemente. Il nuovo proprietario dell’isola di Escobar si tira indietro, niente festival. Billy trova una nuova isola, Great Exuma, ma lì l’unica area disponibile per il Festival è una specie di cantiere tra due canali poco invitanti. Più che le Bahamas sembrano l’ex acciaieria Falk. I soldi finiscono presto. La data si avvicina. Le tende acquistate non sono da Mille e una notte, ma quelle degli sfollati post uragano a New Orleans. Non ce ne sono abbastanza, 350 persone non avranno un posto in cui dormire. E in cui fare pipì e lavarsi, visto che mancano bagni, docce, energia elettrica. Billy rinuncia al catering con il sushi, ma ormai non ha più denaro neppure per i tramezzini. Non viene pagato neppure il fornitore dell’acqua, per cui a questo punto, uno degli organizzatori (gay), racconta con sincerità un aneddoto esilarante: Billy lo chiama disperato e gli spiega che il fornitore d’acqua, in cambio di un suo servizietto orale, sarebbe disposto a cedere senza pagamenti anticipati. Lo implora di fare questo sacrificio. “Sono un professionista in questo settore da decenni e mi sento chiedere un pompino per salvare un Festival dal disastro. Mi sono lavato, ho sciacquato la bocca col collutorio e sono andato”, racconta divertito.
La sera prima dell’evento, quando gli organizzatori piangono (davvero) per lo sconforto e pensano che il peggio che possa ancora capitare è che cominci a piovere, piove. Le tende da terremotati si allagano, i materassi si bagnano, l’area diventa una distesa di fango. Alla fine, il disastro si consumerà.
L’arrivo degli influencer e dei partecipanti è una scena tra l’apocalittico e l’esilarante. Assalti alle tende, il catering che consiste in due fette di pane con una sottiletta, le valigie smarrite in un tendone, persone che vagano come spettri, furti di materassi asciutti da tende più fortunate e infine l’inevitabile: concerti annullati, festival annullato, il ministero del Turismo delle Bahamas che si scusa, Kendall Jenner che fa sparire il post su instagram e inevitabilmente, il rovescio della medaglia: la foto di un bikini su Instagram aveva sancito l’inizio di tutto, la foto delle due fette di pane con la sottiletta postate su Instagram da un influencer che era lì (e che diventa virale), ne sancisce la fine.
La reputazione social del- l’evento è a pezzi. Le manovalanze, i fornitori, le tasse doganali, i proprietari di case e tutto il resto non verranno pagati. Billy scappa, verrà arrestato dopo poco, sarà processato per frode, verrà seppellito da richieste di risarcimenti (26 milioni di dollari).
Vi garantisco che arrivati alla fine di questa storia assurda, chiunque guardi questo documentario, avrà un unico istinto: onorare le sue scadenze. Perché è un documentario sul fallimento di un Festival per colpa di un truffatore mitomane, ma finisci per sentirti tu quello che non ha montato le tende. E io, in memoria del mio orto, ho innaffiato perfino le mie piante finte.