Il Sole 24 Ore, 24 gennaio 2019
Lactalis smonta il gruppo Parmalat
Simone Filippetti per Il Sole 24 OreI francesi di Lactalis si preparano a smantellare Parmalat. Prima l’addio a Piazza Affari, e poi una riorganizzazione che fa traslocare tutti i paesi del gruppo, Italia inclusa, sotto l’ombrello della Francia. Di fatto il più grande gruppo alimentare italiano non sarà più manovrato da Collecchio, ma direttamente da Laval, la cittadina agricola dove la famiglia Besnier gestisce il suo impero.
È la mossa finale della multinazionale del latte, che forse attende da otto anni questo passo definitivo: prendere in mano del tutto le redini di Parmalat che perderà così la sua formale indipendenza. Subito dopo le festività, la mattina del 9 gennaio, i circa mille dipendenti del gruppo italiano si sono trovati nella loro casella di posta elettronica una nota di servizio. In un tono asettico, si informa che in vista dell’imminente delisting di Parmalat, Lactalis vara una riorganizzazione mondiale. Nascono 9 divisioni, di cui tre di prodotto (Formaggi, ingredienti e prodotti freschi), cinque geografiche e una dedicata all’export. Tutte saranno gestite da manager francesi, uomini di fiducia di Besnier, e faranno capo a Lactalis. Senza dirlo esplicitamente, la funzione strategica di supervisione, il cervello del gruppo Parmalat, di fatto scompare. Una decisione legittima. Ma questa nuova fisionomia di fatto cancella la funzione corporate del quartier generale di Collecchio, mentre le società operative dei singoli paesi confluiscono in aree geografiche sotto le dipendenze dirette della casa madre.
La medesima Parmalat Italia viene accorpata a Lactalis Italia, la società dei francesi che a oggi gestiva gli altri asset del gruppo nel paese, in primis Galbani, la storica azienda lombarda di latticini comprata 13 anni fa dal fondo Bc Partners. Il tutto sotto le dipendenze di Marc Besnier. Per la nuova Parmalat orfana di Piazza Affari, dunque, si profila un futuro da azienda puramente commerciale con impianti produttivi.
È una rivoluzione: da quando Besnier aveva messo piede a Collecchio, nella primavera del 2011 con una scalata da 4 miliardi di euro all’azienda che Enrico Bondi aveva fatto sopravvivere al crack di Calisto Tanzi, Parmalat aveva finora sempre goduto di indipendenza e autonomia. Ora tutta la supervisione, dalle strategie, al raccordo tra i vari paesi di Parmalat, all’audit, faranno capo ai francesi. Oltre al contraccolpo più di sistema paese (si veda altro articolo in pagina), ci sarà anche una conseguenza sull’occupazione: la funzione “corporate” oggi conta circa un’ottantina di manager con relativi staff il cui futuro, dopo la mail di inizio anno, diventa incerto. Lactalis finora è rimasta fedele alla tradizione di non aver mai licenziato un dipendente in Parmalat, ma l’annunciato accorpamento geografico con Galbani sotto Lactalis Italia porterà inevitabilmente anche a una duplicazione di funzioni.
I piani di Monsieur Besnier devono però superare un ultimo ostacolo: il delisting. Facile sulla carta, perché rimane da rastrella appena un 3% di capitale per arrivare al traguardo, ma i precedenti giocano a sfavore: a fine 2016 Lactalis aveva lanciato un’Opa per il delisting, ma allora la strenua opposizione di Amber, che per anni ha contestato la gestione francese, fece saltare tutto. Oggi, senza più il fondo attivista di Joseph Ourghoulian tra i piedi, Lactalis ci riprova: offre 2,85 euro per azione. Praticamente lo stesso prezzo di sette anni fa.
Paolo Bricco per il Sole 24 Ore
Nella terra del melodramma, Parmalat è stata un dramma. Un dramma in più atti. La decisione di cancellare l’ultima divisione di gruppo di carattere strategico – non strettamente produttiva e commerciale – ancorata a Collecchio è soltanto l’epilogo minimo di una storia massima la cui trama ha origine nella mala gestio della famiglia Tanzi e si è sviluppato nell’intervento duro e chirurgico della magistratura.
È proseguito poi nel commissariamento e nel risanamento operato da Enrico Bondi, per concludersi nella acquisizione di Parmalat da parte di Lactalis. Che, appunto, negli anni l’ha trattata secondo le logiche semplificatrici ed un poco brutali riservate – in qualunque forma di capitalismo contemporaneo – a una società controllata.
La storia di Parmalat è un paradigma della Storia italiana. La dipendenza dalla politica, prima di tutto. Un esempio: negli anni Ottanta appare legittima l’amicizia del cattolicissimo Calisto Tanzi con Ciriaco De Mita, ma suona irragionevole la scelta di aprire uno stabilimento nella sua – del segretario della DC – Nusco, con l’impianto diviso dalla rete autostradale da una cinquantina di chilometri di strade comunali e provinciali.
Negli anni Novanta, si materializza un’altra debolezza della Storia italiana: lo squilibrio fra l’attività industriale e la finanza di impresa. La produzione e la vendita di latte ha margini bassi e descrescenti. La scelta strategica di espandere il giro d’affari in attività strutturalmente poco redditizie, le diversificazioni familiari nel turismo e il lusso borghese della squadra di calcio cittadina rendono insostenibili – e non veritieri – i bilanci.
Nel 2003, la verità irrompe nella realtà. La Consob muove. E il castello di carta eretto da Tanzi e dal direttore finanziario Fausto Tonna cade. Le inchieste giudiziarie fanno di Collecchio – e di Parma, turbata dallo scandalo nel suo placido benessere – un palcoscenico più da dramma shakespeariano che non da melodramma verdiano. Gli arresti, un manager che si toglie la vita lasciando la moglie e due figli, la scoperta di una frode ai limiti della phantaeconomics, con montagne di denaro inesistente, come i 3,95 miliardi di euro della controllata Bonlat. Alla fine, il crack sarà quantificato in 14 miliardi di euro: poco meno di un punto di Pil italiano.
A operare prima come amministratore delegato e poi come commissario è Enrico Bondi, che in un quadro giuridico segnato dal decreto Marzano-salva imprese grazie a cui la Parmalat non fallisce, promuove delle “energiche” azioni revocatorie e risarcitorie verso le banche italiane ed estere, coinvolte nel dissesto, ottenendo da esse 2 miliardi di euro. Negli anni, la risanata Parmalat rimane quotata, ma non ha un azionista di controllo stabile. Nessun gruppo agroalimentare o nessun investitore italiano pensa ad acquisirla o a integrarsi con essa. Nel 2011, la Lactalis inizia a interessarsi a questa impresa solida, liquida (in cassa ha 1,5 miliardi di euro) e senza un imprenditore. I passaggi sono da manuale di investimento all’estero, peraltro nemmeno mediati dagli standard delle multinazionali anglosassoni ma segnati dal capitalismo rapido e diretto di una famiglia come i Besnier: l’acquisizione, la progressiva concentrazione in Francia delle funzioni più sofisticate, la preparazione dell’uscita dalla Borsa. Un atto classico della trasformazione in una semplice consociata di quella che era un tempo una azienda indipendente, ma che a sua volta – ben prima di questo epilogo – si era rivelata dipendente dai limiti – storici, profondi – dell’economia e della società italiana.